Tacchi a spillo e cinte Louis Vitton. Abiti di lusso e “artigli” con smalto per stringere la preda nella morsa dell’illegalità. La camorra a San Giorgio a Cremano è femmina ed è feroce. L’ordinanza di custodia cautelare firmata dal giudice delle indagini preliminari Giuliana Pollio, che ha portato all’arresto, lo scorso 12 dicembre, di 37 persone considerate – a seconda delle posizioni – al soldo del clan Troia o vicine alla cosca, fa luce sul ruolo del gentil sesso (in questo caso si fa per dire) all’interno del clan egemone sul territorio di San Giorgio a Cremano. Ruolo ricoperto dalle “ladies camorra” con ostentata aggressività. Ruolo di primo piano, di comando, di gestione, che suscita gelosie ed inimicizie, pentimenti e contrasti che rischiano di compromettere l’intera geografia criminale alle falde del Vesuvio. Quello femminile è il sesso forte all’interno della famiglia malavitosa nata da una scissione con il clan Abate o, almeno, è diventato tale dopo gli arresti dei fratelli Vincenzo e Francesco Troia: i figli di Ciro, alias “Gelsomino”, veri artefici della faida, poi vinta, con i cosiddetti “cavallari”,gli Abate. Proprio la detenzione dei “gelsomini”, i “rampolli” di casa Troia, ha permesso alla madre Immacolata Iattarelli di assumere un ruolo di vertice all’interno dell’organizzazione e di porsi «quale punto di riferimento per gli associati nella gestione delle attività illecite, soprattutto nel campo della droga».
La scalata al vertice del clan di Immacolata Iattarelli.
Da portavoce delle volontà dei figli nel 2010 a temuta leader del clan fino all’inchiesta del 2016: è una vera e propria ascesa criminale quella di “donna Immacolata”, indiscussa protagonista delle riprese delle telecamere e delle intercettazioni telefoniche ed ambientali al centro delle indagini coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia partenopea. La scalata al potere della Iattarelli è raccontata anche dalle testimonianze del collaboratore di giustizia Alfredo Troia, cugino di Francesco e Vincenzo, e da quelle della moglie Grandulli Maria, malavitosa di mezza tacca con una parentela e un passato criminale ‘scomodi’. Più volte la reggente dei Troia ha, infatti, intimato a quest’ultima di lasciare il territorio di San Giorgio per il timore – poi rivelatosi fondato – che la donna, cognata del pentito Esposito, potesse percorre la strada della collaborazione con la giustizia ed indurvi anche il marito Alfredo, rivelando agli inquirenti le vicende del sodalizio criminale. «Io sono spesso a San Giovanni perché appartengo ai Rinaldi, sono la zia di My way. Mi sono spiegata, diglielo anche a quello che sta in carcere che ve ne dovete andare»: sarebbe stato questo l’avvertimento rivolto da Immacolata Iattarelli a Maria Grandulli.
Dal traffico di droga alle estorsioni: tutti gli affari della “sindaca”
Piglio deciso, quello della Iattarelli. Ecco perché alla donna è stato cucito addosso l’appellativo di ‘sindaca’. E la ‘sindaca’ era arrivata a gestire le otto piazze di spaccio sul territorio, tra cui quella vicina al municipio di San Giorgio; sollecitava le estorsioni e i pagamenti, ricordandosi di ogni credito, da quelli più cospicui sino alle somme insignificanti, «come quando affianca Siano Vincenzo con l’auto e, con fare brusco gli chiede la restituzione della somma di venti euro». Attentissima alla contabilità del clan, e aiutata dalla figlia Maria, titolare anche lei di una piazza di spaccio – secondo il racconto di Alfredo Troia – e dalla nuora Teresa, moglie del boss Vincenzo, la Iattarelli non lasciava respiro ai suoi debitori, persino ai suoi nipoti, giungendo più volte a minacciarli in caso di ritardo. «Gli affiliati – si legge sull’ordinanza di custodia cautelare – non discutono all’atto della richiesta e, immediatamente, concordano con la donna l’appuntamento finalizzato al versamento delle somme».
Le mesate ai carcerati e i contrasti con la nuora appartenente al clan di Napoli est.
Altro compito di Imma Iattarelli, quello di provvedere al sostentamento dei detenuti, argomento di scontro con una delle nuore, Concetta Aprea, moglie di Francesco Troia e figlia dell’ex boss di Barra, Ciro “pont ‘e curtiell”. Personalità scomoda e per la sua volontà di emergere e per la sua appartenenza alla cosca malavitosa della periferia est di Napoli, la Aprea esprime il suo malcontento per la gestione della mesata ai carcerati al marito Francesco, detenuto nel carcere di Frosinone. Critica lo stile di vita lussuoso della madre, ufficialmente nullatenente – che trapela anche dalle intercettazioni telefoniche con “don Giovanni”, strozzino non identificato – tra scarpe di lusso, macchine nuove, abiti da 2 mila euro per la nipote e cinte Luis Vitton, rapportandolo ai ritardi degli stipendi per gli affiliati in carcere. Lamentele che le frutteranno un ruolo di primo piano, nel 2016, nella gestione dei proventi di alcune piazze di spaccio sul territorio.
Donne di malavita, donne di potere: le signore del crimine di casa Troia hanno sposato appieno le idee e le logiche criminali dei propri uomini, supportando – per dirla con le parole del gip – gli affari di famiglia «con sostegno prima morale e poi fisico e, soprattutto, con impegno costante».
giovedì, 14 Dicembre 2017 - 17:07
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