Può un pubblico ministero calcolare male i tempi e vedersi sfumare sotto il naso la possibilità di chiedere la condanna di persone ritenute colpevoli, vanificando così il processo in cui ha investito ogni energia e finendo con il dover accettare delle ‘contestate’ assoluzioni? Non dovrebbe accadere, eppure può succedere. O meglio, è già successo. Ieri mattina i giudici della terza sezione penale della Corte d’Appello di Napoli hanno dichiarato chiuso il processo a carico di cinque persone collocate dalla procura in orbita clan Moccia senza neppure aprire una discussione sul ricorso presentato dal pm avverso le assoluzioni disposte all’esito del dibattimento. Motivo: il pubblico ministero, che aveva sostenuto l’accusa in giudizio e che sperava nel processo di secondo grado per ottenere le condanne invocate, ha depositato il ricorso avverso la sentenza oltre i termini di legge, rendendo così nulla ogni procedura. Un brutto errore. Al quale il sostituto procuratore generale che ha ereditato il testimone ha pure provato a mettere una pezza, ma le capriole argomentative del magistrato si sono infrante contro lo scoglio di una sentenza della Corte di Cassazione a sezioni unite che i difensori dei cinque imputati hanno legittimamente cavalcato. E così amen. Le assoluzioni diventano definitive e l’amarezza di aver bruciato con le proprie mani un’inchiesta dall’iter processuale sofferto diventa notizia.
Il pasticcio procedurale ha abbracciato l’inchiesta al clan Moccia per associazione mafiosa, estorsioni, usura e armi che il 9 marzo del 2016 è sfociata in 26 condanne e cinque assoluzioni. Processo disgraziato, ché i tempi trascorsi tra la requisitoria dei pubblici ministeri antimafia Ida Teresi e Marco Del Gaudio (di lì a poco passato alla Direzione nazionale antimafia) e il verdetto furono così lunghi che scattò impietosa la decorrenza dei termini di custodia cautelare, facendo così scattare la scarcerazione di diversi imputati (altri rimasero in cella per altri procedimenti). Malumori della procura a parte, il dibattimento – sovrinteso dai giudici della quinta sezione penale del Tribunale di Napoli – si chiuse con un verdetto che sposò la tesi della Dda: vennero disposte condanne sino a 26 anni e 4 mesi di reclusione. Tuttavia furono stabilite anche cinque assoluzioni. Ed è contro quelle cinque assoluzioni che il pubblico ministero antimafia Ida Teresi si è mossa. Ma sbagliando i tempi. Lo strappo si è consumato col deposito delle motivazioni della sentenza di primo grado, inizialmente previste entro 90 giorni. Il Tribunale, successivamente, ha chiesto ed ottenuto una proroga per via della corposità del lavoro da affrontare. Altri 90 giorni. La notifica della proroga viene consegna a tutte le parti interessate, pm incluso. Cosa succede a questo punto? Accade che il pm ha a disposizione, per Legge, 45 giorni per presentare il ricorso in Appello a decorrere dalla scadenza della proroga.
Il pasticcio si consuma a questo punto: venti giorni dopo la scadenza della proroga e l’avvenuto deposito delle motivazioni, dalla cancelleria parte l’avviso, inoltrato a tutte le parti, che informa pm e difensori della consegna della sentenza. Il pm, a questo punto, ritiene che i 45 giorni a disposizione per impugnare il dispositivo vadano calcolati a partire dalla data dell’avviso della cancelleria e non dalla data del deposito effettivo della sentenza. Ecco che il ricorso finisce con l’essere depositato oltre la data di scadenza. E si consuma l’errore. Un errore cui, dicevamo, il sostituto procuratore generale ieri mattina ha provato a rimediare, sostenendo la legittimità dell’operato del pm. Di diverso avviso gli avvocati, che si sono invece appellati a una sentenza del 2007 della sezione della Corte di Cassazione a sezione unite secondo la quale, in caso di proroga di consegna delle motivazioni della sentenza e in presenza della regolare notifica alle parti della proroga (cosa che è avvenuta), i tempi per i ricorsi scattano a decorrere dalla data del deposito e senza che vi sia un nuovo avviso. Alla fine anche i giudici della terza sezione della Corte d’Appello di Napoli hanno dovuto aderire alle posizioni della difesa, dichiarando così l’inammissibilità del ricorso del pm e facendo diventare definitive le cinque assoluzioni ‘contestate’. Assoluzioni che riguardano Antonio Lucci (difeso dall’avvocato Claudio Davino, che ha portato avanti la ‘mozione’ appoggiato dai colleghi), Flora Ciotola (difesa dall’avvocato Antonietta Genovino), Pasquale Puzio (difeso dall’avvocato Saverio Senese), Andrea De Chiara e Luigi Cappiello. Per gli imputati condannati in primo grado, e in favore dei quali gli avvocati hanno presentato ricorso (senza sbagliare i tempi), il processo riprenderà a metà aprile.
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giovedì, 22 Marzo 2018 - 21:07
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