L’ultimo scoglio processuale da superare per arrivare ad una prima verità giudiziaria sulla morte dell’innocente Gianluca Cimminiello, il tatuatore di Casavatore ucciso dalla camorra per essersi ribellato ad un sopruso. Il 18 maggio la Corte di Cassazione deciderà sull’accusa di omicidio mossa a Vincenzo Russo, affiliato al clan Amato-Pagano, l’uomo indicato di aver premuto il grilletto contro Gianluca quella maledetta sera del 2 febbraio del 2010. Per la morte di Cimminiello, Russo ha affrontato già ben quattro processi: condannato in primo e in secondo grado alla pena dell’ergastolo, il malavitoso si vide annullare la sentenza della Cassazione che ravvisò errori metodologici da parte dei carabinieri nella conduzione delle indagini, disponendo una rivisitazione delle prove messe sul tappeto. Di qui il secondo processo d’Appello, che, partito tutto in salita viste le premesse, riuscì a risollevarsi grazie all’intervenuto pentimento di numerosi affiliati al clan Amato-Pagano, i quali, con le loro dichiarazioni, seppure in molti casi frutto della confidenza di terze persone, riuscirono ad assorbire i lati ‘oscuri’ della gestione dell’attività investigativa di due militari dell’Arma all’epoca dei fatti in servizio presso la compagnia di Castello di Cisterna. L’ergastolo fu disposto nuovamente, la sentenza venne scritta dai giudici della quarta sezione della Corte d’Assise d’Appello di Napoli (presidente Domenico Zeuli) e ora tra due mesi il caso approderà in Corte di Cassazione.
Vincenzo Russo è stata la prima persona a finire sotto i riflettori della Direzione distrettuale antimafia di Napoli, questo grazie al coraggio e alla determinazione dell’allora fidanzata di Gianluca Cimminiello, che la sera dell’omicidio si trovava all’interno del negozio di tatuaggi insieme alla vittima. Fu lei, che stava dietro il bancone, a vedere entrare Vincenzo Russo. Fu lei a parlare con l’assassino, che inizialmente si finse interessato a un tatuaggio salvo poi chiedere di parlare col tatuatore, allontanandosi così con Gianluca all’esterno del negozio per vedere alcuni disegni esposti in vetrina. E fu lei a riconoscere in foto Vincenzo Russo, non indietreggiando di un solo passo rispetto alle dichiarazioni rese nella fase iniziale delle indagini. Un coraggio e una determinazione che hanno però obbligato la ragazza ad entrare nel programma di protezione dei testimoni e a rimodulare la sua vita lontana da quella Casavatore che le ha portato via Gianluca. Un omicidio assurdo, quello del tatuatore. Basta ricordarne la genesi per restare basiti e sentirsi impotenti di fronte alla morte di un ragazzo perbene. Tutto cominciò per via di una foto che Gianluca aveva pubblicato sul proprio profilo Facebook: uno scatto che lo ritraeva insieme al Pocho Ezequiel Lavezzi – che all’epoca faceva sognare il Napoli e i suoi tifosi – mentre il Pocho esibiva dei tatuaggi. Era un fotomontaggio. Ma tanto bastò per urticare la gelosia di un altro tatuatore, Domenico Donniacuo detto il ‘Cubano’, il quale, temendo che l’immagine potesse portare a Gianluca numerosi clienti togliendoli al suo negozio, invito ripetutamente Gianluca a cancellare il post su Facebook. Ma Gianluca rispose picche. E così il ‘Cubano’, anziché farsene una ragione, si rivolse ad ‘amici di strada’ per chiedere il loro intervento affinché, coi mezzi spicci da malavitoso, spingessero Cimminiello a cancellare l’immagine. Gli ‘amici di strada’ altro non erano – e il dato è pacifico – che persone del clan Amato-Pagano. Fu così che pochi giorni prima del delitto una ‘paranza’ di delinquenti si recò al negozio di Gianluca per dargli una lezione, ma nessuno di loro aveva fatto i conti con l’abilità fisica di Gianluca e con la sua conoscenza delle arti marziali: Gianluca reagì al tentativo di aggressione fisica ed ebbe la meglio su uno dei suoi ‘rivali’, costretto a tornare a casa con la coda tra le gambe. Il ‘picchiato’ era, tuttavia, imparentato col boss Cesare Pagano. Ed è qui che sulla vita di Gianluca venne scritta una condanna. I camorristi più in alto chiesero soddisfazione per quell’affronto e da Milano rispose il boss Arcangelo Abete, all’epoca detenuto in regime di arresti domiciliari: volendo riparare un ‘regalo’ che Pagano gli aveva fatto al suo ritorno in libertà. Abete chiamò a raccolta i suoi e diede l’ordine di ‘punire’ Cimminiello. C’è chi racconta che l’ordine fu quello di uccidere, chi – in minoranza – riferisce che bisognava dare solo una lezione a Cimminiello gambizzandolo. Fatto sta che quella maledetta sera del 2 febbraio del 2010, Gianluca venne centrato da un proiettile che gli peserò entrambi i polmoni. A sparare, dicono i processi, fu Vincenzo Russo, che ora aspetta l’ultimo grado di giudizio. A ordinare l’agguato e a pianificare il raid furono rispettivamente il boss Arcangelo Abete e Raffaele Aprea, attualmente sotto processo dinanzi ai giudici della quinta sezione della Corte d’Assise di Napoli: il dibattimento volge verso la conclusione, il pubblico ministero ha già chiesto la condanna di entrambi al carcere a vita e oggi prenderà la parola l’avvocato che rappresenta la famiglia Cimminielllo, costituitasi parte civile in questo procedimento come in quello a carico di Russo.
—–> Sul numero di domani del quotidiano in edizione digitale (accessibile su abbonamento) l’approfondimento sull’udienza a carico del boss e del braccio destro (mandante ed organizzatore dell’agguato) che si sta svolgendo oggi in Corte d’Assise.
venerdì, 23 Marzo 2018 - 12:57
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