Ponticelli, il difficile riscatto di Emanuele Così si muore nella Napoli emarginata

di Dario Striano

Emanuele Errico, il ragazzo 19enne rimasto ucciso nella sparatoria di giovedì sera al rione Conocal di Ponticelli, era «il figlio di un bronx minore». Un ragazzo dal passato difficile, nato nel complesso di edilizia popolare della periferia est di Napoli. Terra di degrado, di povertà, di camorra da cui aveva provato a uscire. A scappare. «Io l’ho sempre detto, Emanuele era un cuore nobile con un animo fortemente ribelle, nato in un contesto sbagliato. Il contesto che lo ha difatti ucciso. E la cosa fa rabbia perché lui da quel contesto aveva preso fortemente le distanze». Chi parla è Salvatore Buccelli, lo psicologo della “Comunità Dernier” di Ercolano presso cui il giovane è stato in cura. Un padre adottivo che ha difatti cresciuto Emanuele dai 14 anni. Da quando è entrato per la prima volta in comunità, dopo esser stato fermato su un motorino rubato. E che lo ha conosciuto profondamente. «Il suo era un carattere un po’ da Dr Jekyll and Mr Hyde – ha continuato lo psicologo – Dalle sue parti faceva il duro, forse per autodifesa, qui il suo carattere litigioso provava invece a tenerlo a bada. In comunità, al calcetto, al lavoro, al teatro ci riusciva. A Ponticelli, invece, gli risultava evidentemente più difficile. Viste anche le amicizie e gli ambienti che frequentava». Il profilo tracciato dallo psicologo coincide con la pista al momento più calda che gli inquirenti stanno battendo. Quella della lite. Un litigio personale sarebbe stato il motivo dell’omicidio di Emanuele Errico raggiunto da un proiettile alla schiena mentre era in strada, nonostante fosse sottoposto agli arresti domiciliari per droga. Mentre era in compagnia dell’amico 30enne Ciro Denaro, ferito invece ad una gamba. «Sono state dette tante cose su Emanuele. Io posso sicuramente dire – ha aggiunto Salvatore Buccelli – che non era un camorrista. E’ stato ucciso per una lite. Perché aveva un carattere difficile». Secondo il suo educatore Emanuele Errico non sarebbe stato affiliato ad alcun clan della zona, diversamente da quanto riportato dai media. «Addirittura hanno scritto che il tatuaggio che aveva sul collo era una prova della sua affiliazione al clan D’Amico – ha detto Buccellli – La scritta “Anna” non era per nessuna lady camorra. Era un gesto dedicato a mia moglie, Anna. La titolare della comunità. Per lui era come una mamma». Ebbene sì perché Emanuele Errico è nato nel rione Conocal, ma è stato effettivamente adottato dai comuni di Portici e di Ercolano. Nonostante quel carattere difficile. Testimonianza è la volontà del quartiere di raccontare la vita di quel ragazzo «che aveva sbagliato in passato», ma che – come ha ricostruito l’operatrice sociale della comunità dei Salesiani di Portici , Maria Rosaria Busiello – poi «si era avvicinato all’arte, alla musica e al teatro». Si è avvicinato al mondo del lavoro e allo street food grazie a Livio, commerciante di piazza Poli che gli ha dato lavoro nella sua paninoteca di piazza Gravina. «Gli piaceva il mestiere e lo svolgeva con amore e con passione. Voleva aprirsi una paninoteca e a breve tramite la Comunità Dernier avrebbe potuto brevemente realizzare il suo sogno. Sono ancora incredulo». C’è un intero quartiere a lutto a Portici, quello delle palazzina di via Rossano. Dove  Emanuele andava in chiesa. Dove Manuele si allenava a calcetto. Dove Manuele era per tutti ‘pisellino’. «Non è un soprannome di camorra – ci ha detto Gildo, altro collaboratore dei Salesiani – ma è nato in comunità. Stava a significare tutt’altro. Che non era buono a fare il criminale, perché in realtà era buono e basta e assumeva atteggiamenti sbagliati per autodifesa. Era voluto bene da tutti qui a Portici. Si interessava dei problemi di tutti e dava una mano nonostante fosse giovanissimo. Solo un buono può fare queste cose. I camorristi non le fanno. I camorristi non si fanno voler bene, incutono solo paura. E Pisellino non faceva paura a nessuna». Una circostanza ribadita anche dal suo allenatore di calcio, Federico Sangiovanni. «Non mi ha mai creato problemi. Sempre rispettoso con tutti in campo. Sono molto arrabbiato con lui, perché lui non era cattivo. Voleva esserlo per difendersi dall’ambiente in cui è nato e dal contesto in cui è cresciuto». Già Ponticelli. La periferia est di Napoli. La “terra di mezzo” vesuviana «dove lo Stato è assente». Dove la malavita organizzata e il narcotraffico ammortizzano precariato e povertà. «In quel territorio i ragazzi necessitano di occasioni che non possono provenire solo da chiese e associazione – ha concluso Salvatore Buccelli – Ci vuole lo Stato. Questi ragazzi hanno bisogno di occasioni. E che queste occasioni vengano dallo Stato. Ci vogliono università e presidi fissi statali. Un po’ come sta avvenendo a Scampia dopo il clamore mediatico di Gomorra». Ma a Ponticelli è tutto fermo. «Un primo, significativo ma sempre piccolo passo, potrebbe essere l’apertura seria dell’ospedale. Ma occorre anche altro. E occorre subito per evitare che storie come quella di Manuele accadano nuovamente».

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domenica, 29 Aprile 2018 - 08:00
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