Se è vero che showgirl, attori, politici sono personaggi pubblici e dunque possono essere fotografati senza che siano loro a prestare il consenso per la riproduzione dello scatto, la stessa leggerezza nella diffusione dei volti ‘noti’ non può essere adottata nei confronti dei figli (conosciuti solo per logiche di parentela e non per ragioni di carriera personali) dei famosi, a maggior ragione se essi sono minorenni. E’ questo in sintesi il monito della prima sezione civile della Corte di Cassazione che nei giorni scorsi ha condannato Yahoo Italia a risarcire con 15 mila euro una showgirl e il suo ex marito per aver violato «il diritto all’immagine e alla riservatezza» della loro figlia, all’epoca dei fatti 15enne, pubblicando alcune fotografie che ritraevano la ragazzina mentre faceva shopping assieme alla mamma e alla nonna. La Corte ha rigettato il ricorso di Yahoo contro la sentenza con cui il tribunale di Milano l’aveva ritenuta responsabile della violazione della privacy, sottolineando «l’assenza di interesse pubblico all’immagine della minore e di utilità sociale della notizia». Nel suo ricorso, Yahoo aveva sostenuto invece che la pubblicazione dell’immagine di un minorenne «non è illecita in se stessa, ma solo se gli arreca un danno» e che la ragazza, «sin dalla più tenera età esposta ai media» aveva «sempre gestito con piena consapevolezza la sua immagine, pubblicando centinaia di fotografie sui social». Inoltre, Yahoo affermava di essere «mero fornitore dei servizi di hosting», mettendo quindi «a disposizione spazi web a terzi che vi caricano i loro contenuti, dei quali il gestore non è responsabile» e il giudice del merito, a dire dell’azienda, «senza motivazione» aveva «negato che solo questo fosse il ruolo di Yahoo» che «rimosse i contenuti non appena richiesto». La Cassazione ha ritenuto infondate e inammissibili le questioni sollevate con il ricorso: «L’assunto della ricorrente – si legge nell’ordinanza depositata oggi – è di essere mero prestatore di servizi della società di informazione, quale ‘hosting’, ovvero offerta di accesso alle reti di comunicazione elettronica o semplice trasporto delle informazioni fornite dai terzi destinatari del servizio e invoca l’applicazione del cosiddetto decreto sul commercio elettronico» che disciplina «la responsabilità del prestatore di servizi stesso, limitandola a casi specifici, nella specie non ricorrenti». Tale assunto, secondo i giudici di piazza Cavour, «si scontra con l’accertamento operato in punto di fatto dal giudice del merito, secondo cui la società nel caso di specie ‘non ha operato limitandosi a fornire spazio virtuale nella rete per contenuti realizzati e diffusi da terzi, ma è il soggetto cui fa diretto riferimento la gestione del sito».
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sabato, 26 Maggio 2018 - 11:22
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