Il ritratto di un violento. Di un uomo che non sapeva controllarsi. Neppure davanti alla moglie. Il ritratto di un uomo che neppure ci provava a soffocare la propria rabbia perché tanto si sentiva al sicuro. Si sentiva schermato da quella divisa di carabiniere che indossava. Il ritratto di un uomo che nel raccontare di aver ucciso di botte un povero cristo abusando dei suoi poteri non solo non provava rimorso, ma ne rideva.
La vera indole di Raffaele D’Alessandro, originario di Villaricca, scorre attraverso le parole di chi ha vissuto con lui. Scorre attraverso i ricordi che la (ex) moglie Anna Carino affida ai giudici della Corte d’Assise di Roma al processo che punta a stabilire ruoli e responsabilità nella morte di Stefano Cucchi, ammazzato di botte dopo essere stato arrestato per detenzione di droga. «Quando si arrabbiava aveva l’abitudine di lanciare le sedie, colpire i mobili, dare calci alle cose – ricorda Anna Carino -. Una volta litigammo. Eravamo a San Martino al Cimino. Parlai con il suo comandante e pare gli tolsero la pistola per 15 giorni». Raffaele D’Alessandro è imputato. E’ imputato con l’accusa di omicidio preterintenzionale (insieme ad altri due colleghi), perché – sostiene la procura – fu uno dei tre carabinieri che pestò selvaggiamente il geometra 31enne. E sua moglie, sulla veridicità di quella accusa, non ha dubbio alcuno. Un bel giorno Raffaele D’Alessandro le confidò le sue colpe, senza però mostrare un minimo rimorso. «Mi disse di avere partecipato alla perquisizione in casa di Cucchi e che non avevano trovato niente. Ma dopo diversi mesi, dopo aver visto un servizio in tv, mi fece una confidenza. Disse che la notte dell’arresto era stato pestato, aggiungendo ‘C’ero pure io? quante gliene abbiamo date’», ricorda in aula la donna, che ha trovato il coraggio di denunciare e puntare l’indice contro il padre dei suoi figli. Poi il particolare più agghiacciante: «Raffaele mi raccontò di un calcio che uno di loro aveva sferrato a Cucchi e che aveva provocato una caduta rovinosa – prosegue – Al racconto, mi sembrò quasi divertito; rideva e, davanti ai miei rimproveri, mi rispondeva ‘Chill è sulu nu drogato e ‘m…’». Come se non bastasse, ogni qual volta vedeva in tv la sorella di Stefano, Ilaria, che cercava giustizia e verità «la insultava». In aula cala il gelo. Ogni singola parola che Anna Carino scandisce sembra essere la discesa negli abissi dell’animo umano. Raffaele D’Alessandro, nell’arco della sua carriera, non avrebbe alzato le mani, del tutto immotivatamente, solo su Stefano Cucchi: «Mi ha raccontato anche di altri pestaggi ad arrestati o a persone che avevano portato in caserma; anche se non si trattava di pestaggi di questo livello», prosegue. «Con quella divisa si sentiva Rambo», è la chiosa di un ritratto difficile da dimenticare. Un ritratto che Anna Carino affida oggi alla Corte d’Assise di Roma ribadendo punto punto quanto svelato alla procura nel gennaio 2016. Quasi dieci anni dopo la morte di Stefano. Un ritardo di cui la donna si è scusata personalmente con Ilaria Cucchi: «Mi sentivo in dovere di farlo per chiedere scusa per non aver parlato prima. La incontrai e le dissi che mio figlio mi aveva detto che un giorno sbirciò sul telefono del padre mentre parlava con un amico e vide le foto di Stefano; e che il padre disse all’amico ‘Io accussì l’aggio lassato’. Io dovevo la verità».
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martedì, 12 Giugno 2018 - 20:40
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