«Una massiccia attività di spionaggio che ha puntato a carpire dati sensibili di istituzioni, partiti politici e industrie». Così il pubblico ministero romano Eugenio Albamonte aveva definito, martedì 10 luglio, l’attività di cyberspionaggio che l’ingegnere Giulio Occhionero e la sorella Francesca Maria avrebbero portato avanti dal 2001. Per i due fratelli ieri mattina è arrivata la condanna in primo grado dal tribunale di Roma perché ritenuti colpevoli di accesso abusivo a sistema informatico. Il giudice del palazzo di giustizia romano, Antonella Bencivinni, dopo appena un’ora di camera di consiglio, ha accolto parzialmente le richieste di pena avanzate dalla procura capitolina condannando Giulio Occhionero na 5 anni di reclusione, e la sorella Francesca a 4 anni di carcere. Per loro l’accusa, la scorsa settimana, aveva invece invocato un verdetto di, rispettivamente, 9 e 7 anni di galera «per aver carpito oltre 3,5 milioni di mail e spiato circa 6mila persone».
Il cyberspionaggio
Secondo il pm Albamonte, l’attività di cyberspionaggio avrebbe «puntato a carpire dati sensibili di istituzioni, partiti politici e industrie» attraverso «una vera e propria rete telematica che mirava ad infettare circa 18mila pc» in modo da intercettare «dati sensibili all’insaputa del proprietario del computer». In totale – secondo la procura – sarebbero stati 1935 i personal computer di cui Occhionero avrebbe avuto le credenziali, «che gli avrebbero permesso il pieno controllo». Tra i pc presi di mira anche quelli della Camera e del Senato, del ministero degli Esteri e della Giustizia, del Pd oltre che di Finmeccanica e Bankitalia. I fratelli – aveva sostenuto il pm durante la requisitoria – avrebbero tentato di violare anche le mail dell’ex presidente del consiglio Matteo Renzi, del presidente della Banca centrale europea Mario Draghi e dell’ex premier Mario Monti.
Il dubbio sul movente
L’inchiesta della procura romana sugli episodi di hackeraggio compiuti dagli Occhionero non è mai riuscita completamente a chiarire, spinti da quale movente i due fratelli avessero iniziato ad hackerare i pc. E’ stato soltanto ipotizzato che volessero fornire informazioni su appalti, o investire in borsa, o forse accumulare una serie di dati sensibili legati alla sfera personale di personalità che un giorno avrebbero utilizzato in altro modo. Magari per ricattare personalità influenti. Fatto sta che l’enorme mole di informazioni è stata portata a galla dai magistrati capitolini.
La rete botnet
In sostanza, ieri mattina il giudice Bencivinni ha ritenuta valida la tesi avanzata dalla procura durante la requisitoria secondo cui all’ingegnere nucleare Giulio Occhionero spetterebbe la «responsabilità di avere concepito, pianificato e alimentato dal 2001 un sistema per l’acquisizione» di un numero enorme di dati. Il tecnico avrebbe cioè creato «una rete botnet» con la quale grazie all’utilizzo di un virus – un ‘malware’ chiamato Eyepyramid che entrava nei computer attraverso un messaggio email -, sarebbe riuscito a «immagazzinare in alcuni server negli Usa dati, password e messaggi».
Il pm Albamonte
Nel corso del dibattimento, la difesa degli imputati aveva chiesto al pm Albamonte di astenersi dal processo, alla luce di un’indagine che era stata avviata a Perugia dopo un esposto presentato dagli Occhionero su presunti illeciti compiuti dagli inquirenti nell’attività di indagine. La sollecitazione era stata però respinta dal procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, che aveva riconfermato Albamonte come rappresentante dell’accusa in giudizio.
mercoledì, 18 Luglio 2018 - 20:36
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