Genova, gli applausi al Governo e i fischi al Pd: perché l’Italia si riconosce in Salvini e Di Maio nel giorno del dolore

di Manuela Galletta

Poi a Genova accade quello che non ti aspetteresti di vedere a dei funerali di Stato, in un giorno di grande dolore personale e di una collettività intera. Accade che l’establishment del Governo arrivi compatto, sfili in abito rigorosamente nero davanti a una folla squarciata dal dolore e si ritrovi acclamata. Acclamata da un fragoroso applauso, tanto che il ‘corteo’ dei ministri cambia passo: torna indietro e si stringono le mani alle persone che in piedi occupano la fila più vicina al cordone che limita i percorsi. Bonafede regala anche una carezza e un bacio sulla guancia ad una donna che piange.
A Genova, nel giorno dei funerali di Stato per le vittime del ponte crollato, accade qualcosa che non può essere relegato ad un trafiletto o ad un titoletto. Perché contemporaneamente quella stessa folla regala insulti e parole di disprezzo agli esponenti del Pd che pure raggiungono la Fiera dove si tengono le solenni esequie. «Vergogna», urla qualcuno all’indirizzo di Maurizio Martina. E il segretario nazionale del Pd, con un certo imbarazzo, si allontana. C’è chi, in modo dispregiativo, parla di un popolo ‘ipnotizzato’ dall’onda leghista-grilina per spiegare l’inattesa ovazione, quasi a voler sottolineare, con una buona dose di snobberia, che la folla non riesce a comprendere il peso specifico di chi ha davanti. Ma è una lettura presuntuosa e miope, è la lettura fallimentare di chi a priori giudica ogni provvedimento preso da questo governo un errore a prescindere.
La folla ieri mattina ha applaudito in maniera energica, manco fossimo allo stadio, i vicepremier Luigi Di Maio e Matteo Salvini e il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede; ha compiuto uno slancio spontaneo che disegna in maniera netta di chi, per l’opinione pubblica, sono le colpe per il crollo del ponte di Genova. Viene da chiedersi perché. Perché un popolo piegato da un dolore tanto grande quanto improvviso, abbia voluto dimostrare il proprio sostegno ai politici dell’attuale Governo e al tempo stesso prendere le distanze, in maniera plateale, da quelli del passato. Viene da chiedersi perché a Salvini siano state strette le mani, benché nel giorno di Ferragosto, ossia 24 ore dopo la tragedia, il leghista, invece di volare a Genova, se ne sia andato in Sicilia e non abbia esitato ad ostentare, tramite i profili social, il momento di ‘festa’ in cui si era lanciato, postando foto di torte e di sorrisi.
Una spiegazione plausibile è relativa all’atteggiamento che pezzi di questo Governo hanno avuto di fronte alla tragedia di Genova. Soprattutto i grillini. Si sono indignati a gran voce e come dei kamikaze si sono lanciati contro Società Autostrade, che aveva ed ha la responsabilità della manutenzione e della sicurezza di quel ponte maledetto come dell’intera rete viaria italiana, accollandole tutte le colpe. Senza neppure aspettare un accertamento documentale, inoppugnabile. Hanno fatto ciò che nel chiuso di ogni singola casa italiana hanno fatto i cittadini. Hanno urlato contro l’Ente che a primo acchito sembra avere le maggiori responsabilità. Non solo: avendone il potere, i grillini hanno gridato ai quattro venti di revocare con effetto immediato la concessione ad Autostrade. Salvo poi dover fare qualche mezzo passo indietro e aggiungere al proclama di guerra la formula riparatrice «se ci sono le condizioni», perché tra il dire e il fare ci passa di mezzo un contratto pieno zeppo di clausole, penali, obblighi, diritti e doveri e non è detto che la revoca della convenzione si riveli meno dolorosa, economicamente, che tenerla in piedi nell’attesa che l’inchiesta della procura di Genova faccia il suo corso. L’affrettato attacco ad Autostrade è, e non si fa peccato a dirlo, un’evidente manifestazione di imprudenza e anche di impreparazione che mai dovrebbe caratterizzare l’operato di un rappresentante di Governo. Eppure, nonostante questa palese verità sulla faciloneria con la quale è stato cavalcato un tema così importante, nonostante lo show, a nostro avviso indecoroso, offerto da Salvini in Sicilia, ieri la folla ha portato in gloria la Lega e i Cinque Stelle. Non può essere l’effetto di un’ipnosi di massa. Lì a Genova c’era un pezzo di Italia che soffriva e che in quel momento di lacerante dolore si è sentita meglio rappresentata da Salvini e da Di Maio. C’è un pezzo di Italia che ha avvertito nella corsa di Salvini e (soprattuto) Di Maio a sparare ad alzo zero su Società Autostrade una pretesa di giustizia verace, lontana dalla fredda forma del linguaggio istituzionale cui il Paese è stato sempre abituato e soprattutto lontana dall’odiosa e diffusa idea di connivenza di pezzi della politica con sistemi di potere imprenditoriali. C’è un pezzo di Italia che nella durezza delle parole di Salvini e Di Maio ha riconosciuto le proprie istanze, il proprio linguaggio, la propria rabbiosa e isterica (ma comprensibile) sete di giustizia. Che si è riconosciuta allo specchio. Resta adesso solo da capire se un Paese per essere ben governato debba essere guidato da politici che derogano continuamente allo stile istituzionale, alla prudenza (che per un cittadino comune può essere odiosa ma nel mantenimento di equilibri delicati risulta fondamentale), in molti casi (come dimostrato sino ad ora) alla preparazione su questioni dirimenti. E quali saranno le ripercussioni, sulla distanza, di un simile modo di governare.

domenica, 19 Agosto 2018 - 12:25
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