Quella di Marco Vannini è la storia di un omicidio che si poteva evitare e di infinite bugie. Lucide bugie. Quelle raccontate da una famiglia intera sin dal momento in cui un proiettile si è conficcato nel petto di Marco. Quelle raccontate a telefono con l’operatrice del 118 («Si è bucato con un pettine, si è fatto prendere dal panico), mentre lui si lamentava dal dolore per via di quella pallottola che gli avrebbe strappato alla vita. Quelle, ancora, che hanno provocato un ritardo di due ore nei soccorsi. Due ore di atroce agonia.
Quella di Marco Vannini è la storia di un iter processuale che questo pomeriggio si è concluso tra le urla e le lacrime dei suoi genitori, e l’indignazione di un paese intero. «Da sindaco mi sento di dire che oggi provo un senso di vergogna nell’indossare la fascia tricolore in rappresentanza di uno Stato che non tutela i cittadini e che lascia impuniti gli assassini di Marco», ha commentato il sindaco di Cerveteri – dove viveva Marco – Alessio Pascucci.
Antonio Ciontoli, l’uomo che, accidentalmente, ha premuto il grilletto, il padre della fidanzata di Marco, è stato condannato in Appello a 5 anni per omicidio colposo a fronte dei 14 anni di reclusione stabiliti in primo grado. I giudici della Corte d’Assise d’Appello di Roma hanno ritenuto di riqualificare il reato: Ciontoli, ex militare, in primo grado (la sentenza venne emessa il 18 aprile dello scorso anno) fu ritenuto colpevole di omicidio volontario con dolo eventuale, fu ritenuto colpevole – per tradurla al di fuori del giuridichese – di aver agito accettando il rischio del verificarsi dell’evento benché egli non l’avesse voluto; questo pomeriggio, invece, la Corte ha ritenuto che la morte di Marco fu un incidente.
«Mi è stato ucciso un figlio. Aveva soli 20 anni, si poteva salvare», ha urlato Marina, la madre di Marco, arrivando ad interrompere la lettura della sentenza perché ha raggiunto il banco della Corte per gridare il suo dolore. «Si poteva salvare se fosse stato soccorso in tempo. Mio figlio è stato agonizzante. E’ una cosa vergognosa, è uno schifo, la giustizia non è uguale per tutti», ha ripetuto a squarciagola. La parte più odiosa della morte di Marco Vannini, quella più difficile da accettare, è proprio questa. La famiglia Ciontoli, quella maledetta sera del 18 maggio del 2015, ha temporeggiato prima di chiamare i soccorsi, e quando l’ha fatto ha mentito spudoratamente al telefono con l’operatrice del 118 senza mai dire cosa fosse accaduto in quella casa, impedendo così un soccorso tempestivo. Lo provano le registrazioni di quella chiamata.
La prima agghiacciante telefonata al 118 la fa Federico Ciontoli, fratello della fidanzata di Marco: «Mi serve urgentemente una telefonata a Ladispoli… C’è un ragazzo che si è sentito male di botto e non respira più, respira male». E alla domanda dell’operatrice che chiede cosa è successo, Federico farfuglia: «Non lo so. Eh. Non lo so». Poi incalzato: «Probabilmente uno scherzo, si è spaventato tantissimo e non respira più». Ma l’operatrice è dubbiosa, tanto che Federico le passa alla madre. Dice la donna: «Stava facendo il bagno il ragazzo… stava nella vasca…». Non finisce la frase che una voce in sottofondo le dice che non è necessario più il 118. E lei saluta: «Non serve più, nel caso richiamiamo». Passano pochi minuti e chiama Antonio Ciontoli: «C’è un’emergenza in via De Gasperi a Ladispoli». In sottofondo si sente gridare: «Bastaaa». L’operatrice chiede che problemi ha la persona che necessita del pronto soccorso. E Ciontoli, quasi balbettando alla ricerca delle parole, dice: «Lui ha 20 anni, un infortunio praticamente… in vasca… E’ caduto, e si è bucato un pochino con un pettine… quello a punto.. niente sul braccio, si è messo paura.. si è bucato». Marco continua a lamentarsi. L’operatrice se ne accorge: «Sento che si lamenta.. Sta urlando, si è sentito male?». E Ciontoli: «E’ andato nel panico». Ma la verità è che Marco non era nel panico. La verità è che Marco teneva un proiettile conficcato nel corpo. Quello esploso da una pistola che Antonio Ciontoli stava maneggiando al momento dell’incidente. La verità è che al 118 non venne mai detto che Marco era rimasto da un colpo di pistola. La verità, raccontata dal medico legale del pm, è che Marco morì per un’emorragia interna, per quella straziante agonia di due ore cui i Ciontoli lo condannarono.
La verità è che la famiglia Ciontoli ha inanellato una serie di bugie su quello che accadde nel loro appartamento a Ladispoli, sul litorale romano. La difesa dei Ciontoli ha sempre provato a motivare l’operato degli imputato sostenendo che «Antonio Ciontoli ha cercato di malgovernare una situazione di rischio con una serie di verifiche ad occhio. È colpa non è dolo, è una situazione di pericolo che si verifica per trascuratezza e banalità». Eppure a risentire oggi quelle intercettazioni, si fa fatica ad accettare l’idea che un padre di famiglia, che una famiglia intera, abbia ripetutamente mentito al telefono nel chiedere i soccorsi. Ecco, proprio questa condotta, proprio queste menzogne portate all’esasperazione, spinsero i giudici di primo grado a ritenere che la condotta di Ciontoli avesse configurato il reato di omicidio volontario con dolo eventuale. Di diverso avviso, questo pomeriggio, i giudici della Corte d’Assise d’Appello di Roma, per i quali il reato che inquadra la vicenda è quello di omicidio colposo. Per omicidio colposo sono stati confermati i tre anni già disposti in primo grado per Maria Pezzillo, moglie di Ciontoli, e i figli della coppia, Federico e Martina (fidanzata di Marco Vannini). In aula il padre di Marco, Valerio, trattiene a stento le lacrime: «Non può valere 5 anni la vita di mio figlio. Dove sta la legge? Lui era nel fiore degli anni. Aveva il futuro davanti…».
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martedì, 29 Gennaio 2019 - 20:27
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