Il pg della Cassazione Mario Fresa non ha dubbi quando tira le conclusioni del procedimento disciplinare a carico dei pm Henry John Woodcock e Celeste Carrano in forza alla procura di Napoli in relazione alla gestione della prima parte dell’inchiesta Consip (poi passata a Roma): i diritti di difesa dell’ex consigliere di Palazzo Chigi Filippo Vannoni vennero violati. Vennero violati perché Vannoni fu ascoltato il 20 dicembre del 2016 come testimone, quando ci sarebbero già stati gli elementi per la sua iscrizione nel registro degli indagati. Ecco perché, all’esito della discussione, il pg chiede chiesto al Consiglio superiore della magistratura, sezione disciplinare, di sanzionare i due magistrati. A nulla sono servite le dichiarazioni spontanee rese da Woodckock in apertura di udienza per rivendicare la sua «lealtà» e la «correttezza» del suo operato, smentendo ancora una volta che quell’interrogatorio sia mai uscito dai binari consentiti. Nello specifico il pg ha chiesto di ‘condannare’ Woodcock alla censura e Carrano all’ammonimento (la sanzione minima). Nei confronti di Woodcock è stata chiesta una sanzione più severa perché il magistrato risponde anche di aver rilasciato un’intervista ‘mascherata’ a ‘Repubblica’ contravvenendo alla richiesta di riserbo dell’allora procuratore aggiunto di Napoli Nunzio Fragliasso che reggeva il pool inquirente partenopeo.
Solo a Woodcock, ha sostenuto il pg, si possono imputare le modalità con cui si svolse quell’interrogatorio, perché Carrano non ebbe «un ruolo attivo». Modalità, sempre smentite dai pm e dagli ufficiali di polizia giudiziaria loro collaboratori, che furono denunciate da Vannoni quando venne sentito dalla procura di Roma e che ieri Fresa ha richiamato nella sua requisitoria: come il mostrargli dalla finestra il carcere di Poggioreale per chiedergli se ci volesse andare in vacanza o dei fili per fargli credere di essere intercettato, o il pressing di domande a cui fu sottoposto, accompagnato dall’invito a confessare. Per il Pg non ci sono dubbi: Vannoni andava iscritto nel registro degli indagati così come i pm fecero per l’allora ministro Luca Lotti e per il generale dei carabinieri Emanuele Saltalamacchia, tutti chiamati in causa il giorno prima come fonti della notizia che c’era un’inchiesta su Consip dall’ad dell’epoca Luigi Marroni. Non farlo è stata una «scelta sbagliata, ispirata dalla logica di due pesi e due misure». Ma Fresa va oltre: parla di una «strategia investigativa» mirata al «soggetto più debole» tra quelli chiamati in causa da Marroni, cioè Vannoni, che a un certo punto di quel famoso interrogatorio fece il nome di Matteo Renzi, dicendo che gli aveva detto «di stare attento a Consip». Secondo i pm e gli ufficiali di Pg Vannoni fece quell’affermazione, senza che gli fosse stata rivolta una domanda specifica. Una versione che non convince Fresa: «Il nome di Renzi è stato chiesto, non posso credere che sia uscito come Minerva dalla testa di Giove».
Al pm Woodcock è contestato anche l’aver rilasciato un’intervista ‘mascherata’ al quotidiano ‘La Repubblica’ sulla sua posizione rispetto alle critiche e alle contestazioni che gli erano piovute addosso dopo che i pm di Roma accusarono il carabiniere del Noe Gianpaolo Scafarto di aver commesso pesanti errori di trascrizione nell’informativa consegnata alla procura. Sul punto Woodcock ha ribadito che i suoi giudizi sull’inchiesta Consip che vennero riportati da Repubblica (altra vicenda per cui Fresa ha chiesto la sua condanna) non dovevano essere pubblicati, ma che venne “tradita” la sua fiducia. Il processo riprenderà il 18 febbraio e la parola passerà alla difesa.
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venerdì, 8 Febbraio 2019 - 09:49
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