Che buona parte dell’opinione pubblica tenda a sovrapporre l’avvocato al suo cliente, finendo così con il considerare il legale moralmente ‘colpevole’ per le azioni odiose commesse dall’assistito o in qualche modo solidale con l’assistito, è una deriva culturale di cui noi di Giustizia News24 ci siamo occupati più volte. Ne abbiamo scritto in relazione al caso Prato, a seguito degli insulti piovuti addosso ad un avvocato che aveva assunto la difesa di un prete, peraltro reo-confesso, di avere abusato di una bambina. Ne abbiamo scritto in relazione allo stupro di Viterbo, perché gli avvocati chiamati a rappresentare i due indagati (vicini ad ambienti di Casapound) coinvolti nell’odiosa e vigliacca aggressione sessuale ai danni di una donna sono stati bersagliati da offese e minacce. Offese becere sono state rivolte pure agli avvocati che hanno assistito il nigeriano Innocent Oseghale, poi condannato per l’omicidio di Pamela Mastropietro, la 18enne di Roma uccisa e fatta a pezzi. Ci siamo anche occupati della polemica di bassa lega, stavolta montata in ambito politico, che ha colpito un noto e stimato penalista di Pavia, Maria Teresa Zampogna, già presidente dell’Osservatorio nazionale sui processi di criminalità organizzata dell’Unione delle Camere penali italiane: i Cinque Stelle si scagliarono contro la penalista a seguito della sua nomina, in Regione Lombardia, per il comitato regionale antimafia. La consigliera grillina Monica Forte pose «un problema di opportunità: nel comitato devono entrare persone con esperienza nel contrasto alle mafie», come a sottintendere che Zampogna l’esperienza ce l’ha sì, ma nella difesa delle mafie. Come se un avvocato che difende un mafioso sia, per una sorta di estensione, esso stesso un mafioso.
Oggi torniamo sull’argomento, ma stavolta per documentare come a sovrapporre i due piani siano degli avvocati, con tutte le polemiche che ne sono seguite. La drammatica storia di Vittoria nel Ragusano, dove due ciginetti di 12 e 11 anni hanno perso la vita perché falciati da una macchina guidata da una persona sotto l’effetto di alcol e droga, ha fatto emergere valutazioni, anche un po’ confuse in verità, sulle quali finanche l’Unione delle Camere penali italiani si è sentita in dovere di intervenire. Partiamo dal fatto storico: su un sito di informazione giuridica curato dagli avvocati di uno studio legale viene pubblicato un commento sulla tragedia di Vittoria, a firma dell’avvocato responsabile della testata regolarmente registrata in Tribunale. A chiusura del commento, l’avvocato aggiunge un post scriptum sulla sua persona: «Un Avvocato. Uno di quelli spero tanti che non difenderebbe mai uno così». Segue un altro commento, una sorta di lettera aperta sempre a firma di un avvocato che esplicita meglio il perché da avvocato non difenderebbe mai Rosario Greco. «I bambini non si toccano», ripete spesso il legale. E quindi pone un problema di «obiezione di coscienza», evidenziando in buona sostanza che un avvocato ha il diritto di rinunciare a una difesa. Il problema però che l’avvocato va oltre e invoca «l’obiezione di coscienza» per i difensori di ufficio, quale lui – per sua stessa ammissione – è. E’ qui che il pensiero dell’autore del commento scivola nella confusione e nella irrealtà: se un avvocato nominato di fiducia può rinunciare al mandato, l’avvocato d’ufficio proprio non può farlo. Spieghiamo in maniera semplice, per i non addetti ai lavori: la figura del difensore d’ufficio viene introdotta per assicurare a tutti gli indagati un difensore, questo perché nel processo la presenza di un avvocato è obbligatoria; dal momento che un indagato può non avere un avvocato di fiducia, o perché non l’ha ancora nominato o perché questi abbia rinunciato al mandato), entra in campo il difensore d’ufficio, scelto su base automatica e fra gli iscritti ad un elenco nazionale. Ciò significa che chi dà il consenso a fare inserire il suo nome in quell’elenco, presta anche il consenso ad assumere qualsiasi difesa gli capiti come stabilisce anche l’articolo 97 del Codice di procedura penale («Il difensore di ufficio ha l’obbligo di prestare il patrocinio e può essere sostituito solo per giustificato motivo»).
A fronte dei due commenti di cui vi abbiamo parlato, nel mondo dell’avvocatura si è aperto un dibattito. E si sono levati anche cori di indignazione per quanto scritto. Tanto che l’Ucpi è dovuta scendere in campo per sottolineare che queste affermate sono «errate e pericolose», nonché forse frutto di «un malcelato tentativo di acquisire consenso tra la pubblica opinione, particolarmente scossa in situazioni come questa». L’Ucpi parla di affermazioni «errate perché contrastano con il dettato della legge professionale – che sancisce espressamente un dovere di difesa per il difensore d’ufficio – e di alcune norme deontologiche, che impongono all’avvocato, iscritto nell’elenco dei difensori d’ufficio e nominato, di prestare il proprio patrocinio». Definisce, poi, le affermazioni «pericolose» perché «in un ordinamento democratico e liberale non vi è spazio per decisioni sulla libertà personale prese al di fuori del processo e senza la presenza – indefettibile – del difensore». Quindi l’Ucpi prova a spiegare in maniera semplice quale sia il ruolo di un avvocato in un processo: «L’Avvocato non difende le azioni dell’accusato, ma il suo – irrinunciabile – diritto ad un processo giusto, celebrato nel pieno rispetto delle regole. Di questa fondamentale garanzia, molto spesso, l’Avvocato d’ufficio è il solo ed ultimo custode». Continua l’Ucpi: «Nel difendere il diritto ad un processo giusto anche per l’ultimo degli imputati del più grave ed odioso crimine, l’Avvocato d’ufficio è posto a tutela di diritti fondamentali che appartengono a tutti, perché non ammettono deroghe ed eccezioni». Ecco perché, conclude l’Ucpi, «non possiamo accettare che siano (addirittura!) degli avvocati a mettere in discussione queste conquiste di civiltà».
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martedì, 16 Luglio 2019 - 14:23
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