Sulla morte di Stefano Cucchi «ci fu uno scientifico depistaggio». Un depistaggio cominciato nella notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009 alla stazione Appia dei carabinieri dove il geometra romano arrivò in stato di fermo perché trovato in possesso di droga. Un depistaggio voluto con determinazione per insabbiare una drammatica verità: l’abuso di forza da parte di due carabinieri che massacrarono di botte Cucchi, riducendolo come «una zampogna» solo perché questi si era opposto al fotosegnalamento.
Il pubblico ministero Giovanni Musarò ripercorre per oltre cinque ore, dinanzi ai giudici della Corte d’Assise di Roma, la tragica sorte toccata a Stefano Cucchi. E, senza indugi, affonda il colpo nei confronti di quei militari che si avventarono su una persona in stato di fermo: Cucch fu vittima di «un pestaggio degno di teppisti da stadio, violentissimo, contro una persona fragile, sottopeso». Un’aggressione vigliacca e vergognosa. Un’aggressione per la quale il pm avanzerà richieste di condanna nell’udienza del 3 ottobre. Sul banco degli imputati ci sono cinque carabinieri, tre dei quali rispondono di omicidio preterintenzionale: le posizioni più gravi sono quelle di Raffaele D’Alessandro (di Villaricca), Alessio Di Bernardo e Francesco Tedesco. Tedesco, nel corso del processo, ha confessato e ha chiarito cosa accadde quella notte. Una decisione, la sua, che il pm Musarò ritiene di altissimo rilievo, pur non dimenticando la sua responsabilità rispetto ai fatti: «E’ l’unico che ci ha messo la faccia – dice il pm – e lo ha fatto nei confronti di tutti. Nessuno ha chiesto di fare dichiarazioni spontanee, nessuno ha chiesto un confronto con lui (…) Quello che ha fatto Tedesco è grave: false dichiarazioni al pm, falso verbale e altro. Ma lui spiega il perché, dice che si è trovato di fronte un muro. E’ vero, ci si poteva opporre ma era difficile farlo, non possiamo nasconderci dietro a un dito. La dichiarazione è importante perché rappresenta la caduta del muro, ma le prove di quanto accaduto sono già tutte nel fascicolo».
Per la procura è indiscutibile che a determinare la morte di Stefano Cucchi fu quel pestaggio, perché da lì iniziarono ad aggravarsi le condizioni di salute del 31enne spingendolo, durante il ricovero all’ospedale Sandro Pertini di Roma, a rifiutare il cibo. «Le lesioni più gravi sono state prodotte dalla caduta di Cucchi, dopo un violentissimo pestaggio – spiega il pm – Quella caduta è costata la vita a Stefano Cucchi, si è fratturato due vertebre. Lui stesso, a chi gli chiese cosa fosse successo, disse: ‘Sono caduto’». A descrivere meglio di altri, lo stato in cui Cucchi fu ridotto dal pestaggio, è stato – durante il processo – un detenuto, Luigi Lainà, «il primo elemento di novità di questo processo» come lo ha definito il pm. «Lui dice di sapere cosa era successo a Stefano Cucchi – racconta il magistrato – Dice che la sera in cui lo vide, la prima cosa che gli saltò agli occhi fu il suo aspetto fisico («Era tutto acciaccato di brutto») e gli chiese ‘chi ti ha ridotto cosi’?’, ma lui non rispose». La mattina dopo, ha aggiunto il pm, «Lainà vide Cucchi seduto in maniera non corretta, stava in condizioni pietose, non riusciva a mangiare, a bere, a parlare; era rimasto impressionato dai segni che aveva sulla schiena perché gli aveva fatto alzare la maglietta. E per come stava non riusciva a parlare bene». Emblematico anche il racconto fornito in aula dalla ex moglie del carabiniere imputato Raffaele D’Alessandro, che ha confessato di avere ricevuto una confessione dal marito sul pestaggio e ha ricordato di come il marito ridesse mentre le raccontava di avere massacrato Cucchi di botte.
Determinante, per il pm, è stato l’aiuto offerto dal carabiniere Riccardo Casamassima (non coinvolto in quella brutta storia) che squarciò il velo di omertà nel 2014 consentendo alla procura di indirizzare le indagini verso la giustizia direzione e innescando la decisione di diversi testi, incluso il militare imputato Francesco Tedesco, di raccontare davvero cosa accadde a Cucchi quella maledetta notte: «Le presunte criticità sollevate dai difensori degli imputati di questo processo non solo non hanno scalfito ma hanno pure dato forza al grado di attendibilità e credibilità di questi due testimoni (Casamassima e Maria Rosati, ndr). Loro sono stati pure intercettati per cui possiamo dire che le testimonianze rese in procura, ovviamente riscontrate, si sono rivelate genuine». A chiudere il cerchio la confessione di Tedesco, definita «logica» dal pm.
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venerdì, 20 Settembre 2019 - 20:48
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