Prima l’esclusione dai lavori della ricostruzione del Ponte Morandi a Genova a causa di un’interdittiva antimafia, poi l’arresto per intestazione fittizia di beni con l’aggravante della matrice camorrista in relazione alla gestione dell’azienda che era stata fatta fuori dalla ricostruzione perdendo il subappalto da 100mila euro. E, adesso, il processo. Ferdinando Varlese, zio dei boss D’Amico di San Giovanni a Teduccio, comparirà a novembre dinanzi al gip per affrontare il rito abbreviato. Con lui, sotto accusa, c’è la consuocera Consiglia Marigliano. Entrambi dovranno rispondere solo del reato di intestazione fittizia di beni, perché la procura ha fatto un passo indietro sull’aggravante della matrice camorristica per avere agito al fine di agevolare il clan D’Amico. Il processo si definirà con la modalità del rito abbreviato, formula che prevede lo sconto di un terzo della pena.
La procura contesta ai due imputati anomalie nella gestione della Tecnodem: sulla carta l’amministratore unico è Consiglia Marigliano, ma la procura ritiene che la donna sia una prestanome, un «cosciente schermo» per dirla con le parole degli inquirenti; per gli inquirenti l’amministratore di fatto della società è Varlese, che invece figura solo come dipendente.
Inizialmente ai due imputati, attualmente detenuti in regime di arresti domiciliari, era contestata l’aggravante della matrice camorristica. La contestazione poggiava su due dati: un vecchio problema con la giustizia di Varlese (30 anni fa venne condannato per associazione a delinquere nell’ambito di un processo che che vedeva tra gli imputati anche soggetti affiliati al clan Misso-Mazzarella-Sarno guidato da Michele Zaza e Ciro Mazzarella), ma soprattutto il suo legame di parentela con i boss D’Amico di San Giovanni a Teduccio. Elementi, tuttavia, che non sono stati ritenuti sufficienti per dimostrare che la Tecnodem abbia risentito di eventuali ingerenze della camorra.
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giovedì, 3 Ottobre 2019 - 14:28
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