E’ stato scarcerato due volte in due mesi per fine pena. Un caso kafkiano quello di Domenico Paviglianiti, considerato un «boss dei boss» della ‘ndrangheta di Reggio Calabria tra gli anni Ottanta e Novanta, pluriomicida, ergastolano, catturato in Spagna nel 1996 e due anni dopo estradato. Oggi Paviglianiti ha 58 anni e si trova al centro di un caso giudiziario peculiare e di un rimpallo tra giudici e difensori.
I suoi avvocati e le autorità giudiziarie di volta in volta competenti, infatti, hanno calcolato in maniera diversa quanto gli resta da scontare della pena che gli è stata inflitta. Secondo l’ultimo giudice chiamato a decidere perché chiamato in causa dagli avvocati del detenuto, non gli resta più nulla da scontare e per questo dallo scorso 18 ottobre è un uomo libero. La seconda scarcerazione dopo quella disposta ad agosto ma durata solo 48 ore perché secondo la Procura di Bologna la pena sarà scontata invece solo nel 2027. Ora è arrivata la seconda scarcerazione e un nuovo ricorso in Cassazione a cui si chiede di dirimere la questione.
Tutto nasce dal fatto che in Spagna, all’epoca dell’estradizione, il carcere a vita non era contemplato. Caduto l’ergastolo, i 168 anni di somma aritmetica di condanna per il boss sono stati commutati in 30 anni. Lo ha deciso ad agosto un gip di Bologna, autorità giudiziaria competente perché proprio dalla Corte di appello emiliana era stata emessa l’ultima sentenza passata in giudicato. A questo punto, secondo i difensori, a febbraio 2019, dopo 23 anni, tra indulto, liberazione anticipata, era già scontata tutta la pena. Su questa base è stata ottenuta la prima liberazione, decisa in un primo momento dalla stessa Procura. Secondo una rivalutazione successiva dei pm, che hanno acquisito ulteriore documentazione, non si e’ però tenuto conto che una delle sentenze, una condanna a 17 anni per associazione mafiosa, nel 2005, si riferisce a fatti avvenuti dopo l’estradizione dalla Spagna, spostando dunque il fine pena in avanti di 8 anni. Di differente avviso il secondo Gip, che ha considerato la sentenza del 2005 già valutata nei conteggi precedenti.
Ma secondo la Procura di Bologna questa valutazione è errata: sulla base dell’acquisizione, si rende necessario rideterminare la pena residua da scontare, adottando un criterio di calcolo diverso da quello fatto in precedenza. Inibire questa facoltà, secondo il ricorso inoltrato alla Cassazione e firmato dal procuratore aggiunto Lucia Russo e dal pm Michele Martorelli «costituisce scelta sorprendente» e in conflitto «con i principi e le norme in tema di esecuzione delle pene detentive».
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lunedì, 28 Ottobre 2019 - 11:33
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