Crollo a Rampa Nunziante, in aula le foto del crollo e l’imputato Velotto attacca: «Ho denunciato Lafranco e il notaio»

di Roberta Miele

Il soffitto divelto con i tubi del bagno scoperti, infissi assenti e tramezzi rimossi. E poi, all’esterno, un giardino fitto di erbacce. Le immagini del palazzo di rampa Nunziante, crollato a Torre Annunziata il 7 luglio 2017 uccidendo otto persone (tra cui due bambini), scorrono dinanzi agli occhi dei presenti nell’Aula Siani del tribunale di Torre Annunziata in occasione dell’udienza tenutasi mercoledì 22 gennaio. In sottofondo, per spiegare il contenuto delle foto e dei due video, la voce di Gerardo Velotto, uno dei quindici imputati, accusato di crollo e omicidio colposo. Promissario acquirente della casa al secondo piano Velotto, per l’accusa, ha effettuato lavori alle strutture portanti dell’edificio, causandone il crollo.

«Non è stata fatta alcuna modifica strutturale. Dal 20 maggio 2017 è stato soprattutto pulito il giardino, e anche lì è stato solo tolto un muretto, nessuno sbancamento». Velotto ha rispedito tutte le accuse al mittente: «Non c‘era alcuna ragione per lavorare sulle mura portanti e allargare l’appartamento. Già c’erano due grandi aperture, nemmeno il sottofinestra è mai stato toccato». All’interno dell’immobile, ha spiegato dinanzi al giudice Francesco Todisco, sono state tolte le mattonelle e alcuni tramezzi. Intanto ha fermato le immagini sul videoproiettore per mostrare i segni delle pareti abbattute. A ordinare la demolizione Velotto e Massimiliano Bonzani, il «direttore dei lavori» a cui Velotto aveva chiesto di seguire la ristrutturazione, ma senza aver mai visto il progetto, «non ancora concluso».

Velotto ha poi bloccato la proiezione su una foto scattata il 5 luglio 2017 che mostra uno dei maschi murari del lato ferrovia, quello crollato. Una grossa chiazza di intonaco non c’è, «ma non l’ho fatta togliere io, è caduta da sola». Nessuno, per l’imputato, poteva immaginare cosa sarebbe successo, tutti erano tranquilli. «Avevo convocato la riunione del 6 luglio solo per discutere dei lavori da fare nel condominio. Le fecali – ha continuato – erano tutte ammalorate, poi notai un grosso rigonfiamento di intonaco tra il terzo e il quarto piano, ne discussi con Bonzani e con Nellino (Aniello) Manzo, il quale disse che si doveva spicconare. Anche all’esterno dell’edificio c’erano questi rigonfiamenti, ma nessuna crepa o lesione, come è stato detto da altri: non è vero niente». Intanto, col dito ha indicato le pareti esterne senza intonaco cristallizzate nel secondo video, risalente al 18 giugno 2017. Il filmato, ha raccontato, è stato girato a sua insaputa dalla figlia di 10 anni con il suo telefonino e trovato per caso. Sul cellulare di Velotto, invece, foto del palazzo non sono state rinvenute, nonostante fossero state scattate. «I carabinieri, un mese dopo la tragedia, mi hanno sequestrato il cellulare, ma era nuovo. L’altro, dove c’erano le foto, l’avevo rotto dopo il crollo per la rabbia».

Qualunque fossero stati i lavori effettuati, mancavano le autorizzazioni necessarie: «Non sapevo ci volessero, non me ne sono interessato», la giustificazione di Velotto. Così come non sapeva il motivo dell’utilizzo dei puntelli. La spalletta di mattoni, invece, non l’aveva proprio vista. Troppi ‘non so’ per il pm Andreana Ambrosino. «Velotto non posso credere che lei non sappia nulla. – le parole dell’accusa – Erano venuti dei tecnici a casa sua, come fa a non interessarsi dei lavori che devono essere fatti? Ha capito che i lavori hanno fatto crollare il palazzo: è questa l’ipotesi accusatoria».

Durante la lunga deposizione, durata quattro ore, Velotto ha ripercorso le tappe che hanno portato alla stipula del preliminare con Massimiliano Lafranco (anche lui imputato), «mai conosciuto prima di marzo 2017, come gli altri inquilini del palazzo». «Lafranco  – ha raccontato – mi è stato presentato dal gestore delle terme vesuviane che sapeva della mia ricerca di una casa più grande. Il 19 marzo 2017 ho visto per la prima volta l’immobile». All’epoca era ancora diviso da un tramezzo in tre piccoli appartamenti. La parete divisoria è stata poi abbattuta da Velotto e lo smaltimento dei rifiuti «è stato pagato dallo stesso Lafranco». La trattativa per la vendita si è interrotta una prima volta ad aprile, quando Velotto ha scoperto che l’abitazione era 150 mq e non 180 come dichiarato dal venditore. Il dialogo tra i due è ripreso i primi giorni di maggio: «Ci accordammo per 376mila euro», in parte a nero, in parte da pagare con assegni. Il preliminare è stato stipulato dal notaio Di Liegro, che aveva già rogato alcuni atti precedenti.

«Il notaio mi aveva detto che le carte erano a posto. Mi sono fidato. Ho denunciato Lafranco e chiestogli un risarcimento perché non poteva vendermi quell’immobile. Ho denunciato il notaio per truffa perché c’era un vizio e non me l’ha detto. Ero l’unico all’oscuro di tutto. Se l’avessi saputo stamattina non sarei qui», il racconto dell’imputato. L’edificio, risalente agli anni Cinquanta, secondo il consulente nominato dall’accusa è abusivo, poiché non ha le autorizzazioni edilizie necessarie. Inoltre, la pratica catastale avviata per alcune modifiche al secondo piano era stata bloccata poiché lo stato dei luoghi non era conforme a quanto dichiarato. Quest’ultima circostanza è emersa all’udienza del 17 luglio scorso, con le deposizioni di due funzionari dell’Agenzia delle Entrate.

La mattina della tragedia, «pensavo fosse scoppiato il Vesuvio. Sono stato il primo ad arrivare sul posto. Poi verso le 9 mi ha chiamato Lafranco per dirmi di andare dal notaio. Mi accompagna Pasquale Sentiero. Lafranco mi ha detto di dover eliminare la parte contante contenuta nel prezzo totale, così da 376 la cifra è scesa a 210mila». La sera, invece, Velotto è andato allo studio di Roberto Cuomo (amministratore del palazzo e imputato). «Eravamo tutti increduli, la sera precedente eravamo stati a casa mia per la riunione di condominio. Nessuno mi puntò il dito contro per i lavori. Nessuno poteva pensare ad una cosa del genere». E, intanto, «nei giorni successivi al crollo c’è stato un attacco nei miei confronti. Tutti, anche il sindaco (Vincenzo Ascione) accusava i lavori al secondo piano, i giornali parlavano di putrelle rimosse». Per tutte le «bugie» raccontate, Velotto ha svelato di essere stato minacciato più volte, «anche in questa stessa Aula». E con lui, i suoi figli minorenni. Così si è deciso a sporgere denuncia.

Gerardo Velotto non è stato l’unico imputato ascoltato durante l’udienza fiume. Prima di lui ha preso la parola Roberta Amodio, promissaria venditrice di uno degli immobili della palazzina, accusata di falso ideologico. «Non sapevo nulla dell’assenza della licenza edilizia. Ho fatto affidamento su mio padre che mi ha intestato l’immobile quando avevo otto anni. Non potevo sapere», la sua difesa.

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martedì, 28 Gennaio 2020 - 16:05
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