La rivolta nel carcere di Fuorni, rimostranze nel penitenziario di Poggioreale. L’emergenza sanitaria da Coronavirus inizia a fare sentire la sua pressione anche sulle prigioni italiane, quelle sovraffollate, quelle dove in moltissimi casi non viene rispettato lo standard fissato per lo spazio che ogni detenuto deve avere a sua disposizione in cella (ragione per la quale l’Italia è stata spesso e volentieri sanzionati dalla Corte di Strasburgo): 6 metri per due di spazio vitale, esclusi i sanitari, in cella singola; e 4 metri per due in una cella condivisa con altri detenuti.
Ad alimentare i primi focolai di tensione è stata la direttiva di un decreto legge, che però non è ancora stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale e pare debba essere soggetto ancora a limature, che vuole vietare i colloqui coi familiari fino a maggio, questo allo scopo di eliminare contatti con l’esterno dal quale potrebbe arrivare il virus. Ma le ragioni delle tensioni potrebbero presto aumentare: la popolazione carceraria avverte un forte rischio di esposizione al rischio contagio, complice anche la calca delle prigioni. E così la rivolta del carcere di Fuorni per che ore ha tenuto in scacco il penitenziario rischia di essere solo la miccia di un’esplosione di esasperazione che potrebbe diventare ingestibile.
A Napoli, su input della Camera penale partenopea guidata da Ermanno Carnevale, è stato istituito un tavolo tecnico permanente per monitorare il mondo delle carceri e per individuare «ogni ogni ulteriore e più efficace misura a tutela della salute e dei diritti della popolazione carceraria». La prima riunione si terrà già la prossima settimana, e per la Camera penale è a lavoro l’avvocato Sergio Schlitzer, già presidente dell’associazione ‘Il carcere possibile’.
Avvocato Schlitzer, ci sono misure che sono immediatamente praticabili per allentare il nodo del sovraffollamento che rischia di diventare causa di rapida diffusione del virus in caso di contagio?
«Assolutamente sì. La soluzione è rinviare l’esecuzione della pena, laddove vi siano condanne basse da espiare, e in caso di misure cautelari in corso concedere i domiciliari, magari anche con braccialetto elettronico. Fissando anzitutto una priorità…»
Quale?
«Favorire il ritorno a casa o posticipando l’accesso in carcere di persone che hanno sopra i 60 anni e che presentano un quadro clinico già problematico. Perché esse sono le persone più a rischio in caso di contagio. Inoltre più in generale bisognerebbe evitare i nuovi ingressi di detenuti laddove, in caso di esecuzione della pena, la condanna sia di pochi anni: vi sono 8mila detenuti con un residuo pena minimo. Così facendo la pressione del sovraffollamento inizierebbe ad allentarsi».
Qualche dato sulla popolazione carceraria over 60…
«Negli istituti di pena italiani ci sono circa mille detenuti oltre i 70 anni; circa 4mila sono quelli che hanno oltre i 60 anni. E molti di questi hanno patologie croniche. In Campania gli over 70 sono 78; mentre gli over 60 anni sono circa 440»
Ieri a Vittorio Cecchi Gori il Tribunale di Sorveglianza ha concesso la detenzione domiciliare, a fronte di una condanna definitiva a 8 anni, quindi alta, proprio perché lo si ritiene un soggetto a rischio contagio. Significa che misure del genere non sono poi impossibili da applicare.
«Sono provvedimenti di buon senso. Ed il buon senso è proprio ciò che occorre in questo momento. Anche se provvedimenti adottati come se fossero un unicum non bastano»
Cosa serve?
«Non si può demandare tutto a un Tribunale di Sorveglianza o a un giudice. Anche perché i tempi per presentare un’istanza, discuterla e ottenere una decisione corrono assai più lenti della diffusione del contagio. In questa fase di emergenza, invece, è necessario un provvedimento normativo unitario a livello nazionale. C’è bisogno di una direttiva che sia uguale per tutti e che non alimenti il caos».
Qualche provvedimento per cercare di tutelare la popolazione carcerazione è stato adottato, però…
«Sì, ma non sono sufficienti e soprattutto non tengono conto delle esigenze dei detenuti. Ad esempio nelle carcere della Campania, per i nuovi detenuti si fanno i triage per verificare se stanno bene. Ma come abbiamo visto in molti casi i contagiati sono asintomatici. Cosa succede se un nuovo detenuto che entra è sintomatico? Ecco perché, è prioritario scongiurare i nuovi ingressi se i fatti non sono gravi. Poi c’è la questione del divieto dei colloqui coi familiari. Ancora non è certo che essi saranno bloccati sino a maggio, voci dicono che il divieto potrebbe durare sino alla fine di marzo ma sul punto non c’è certezza. Ad ogni modo vietare del tutto i colloqui aumenta la tensione».
Cosa suggerite?
«Anzitutto si potrebbe disporre il blocco dei colloqui solo per un paio di settimane. Come è accaduto con la sospensione feriale per i Tribunali. E poi in questo tempo valutare le migliore misure ascoltando anche i direttori dei penitenziari».
In un momento di emergenza, però anche i detenuti dovrebbero fare la loro parte e fare qualche rinuncia….
«Certamente… E infatti sta già accadendo: il numero dei colloqui si è notevolmente ridotto, questo perché sono proprio i detenuti a chiedere ai parenti di non recarsi a trovarli. Non è che sono degli sciagurati. Però un conto è una rinuncia, un conto è cancellare tutti i loro diritti. Le soluzioni draconiane, come la sospensione dei colloqui fino a maggio, non vanno mai bene».
Però il Governo ha previsto di sostituire i colloqui de visu con quelli via Skype. Non basta?
«No, perché i detenuti che vivono già in una condizione di isolamento hanno bisogno di un minimo di affettività. Di un incontro. Di vedere da vicino i parenti. E ovviamente parlare via Skype è un’altra cosa. Ma poi non è detto che questa soluzione sia di facile applicazione»
In che senso?
«Pensiamo ai detenuti stranieri. Come si fa a verificare chi parla dall’altra parte?»
E, allora, che si fa?
«Bisogna contemperare le esigenze dei detenuti con la situazione sanitaria emergenziale. Ma con buon senso. E soprattuto con linearità».
La linearità, appunto. Soprattuto sul piano della Giustizia gli avvocati italiani hanno contestato il ritardo di decisioni ferme e soprattuto organiche.
«Sì, effettivamente certi provvedimenti potevano essere affrontati prima. Ma spero adesso che ci sia un cambio di rotta. Noi avvocati, tutta la categoria, stiamo facendo la nostra parte e sta avendo un ruolo importante nell’affrontare questa situazione».
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domenica, 8 Marzo 2020 - 13:44
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