Parla ai detenuti «che rispettano le regole», quelli che «dimostrano di seguire un percorso di rieducazione vero». A loro assicura che il Governo tiene e terrà in conto le paure e le rivendicazioni espresse con civiltà e «con responsabilità».
Ma a quanti hanno incendiato le carceri, devastando le strutture penitenziarie e aggredendo, in qualche caso, anche gli agenti della Penitenziaria, non intende fare sconti perché «fuori dalla legalità e addirittura nella violenza, non si può parlare di protesta, si deve parlare semplicemente di atti criminali». Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede parla una ventina di minuti nella sede della Camera dei deputati, esponendo la relazione su quanto accaduto tra sabato e ieri in 27 prigioni italiane. E il suo è un discorso fermo. Fermo nel censurare il tenore delle rivolte più acceso ma anche fermo nel riconoscere che nel sistema penitenziario italiano esistono delle criticità.
«L’immagine dei disordini è ascrivibile a una ristretta parte di detenuti, circa 6mila su tutto il territorio nazionale – sintetizza Bonafede – Mentre la maggior parte dei detenuti ha manifestato le proprie paure e la propria sofferenza con responsabilità e senza ricorrere alla violenza». Due condotte diametralmente opposte nel rapportarsi ad un’emergenza sanitaria che fa sentire il suo peso sul sistema penitenziario. Due condotte che inducono il ministro a distinte valutazioni: «Lo Stato italiano non indietreggia di un centimetro di fronte all’illegalità», dice, lasciando intendere che la devastazione delle carceri non può diventare un’arma di ricatto da usare contro il Governo per indurlo a varare provvedimenti di scarcerazione, amnistia o indulto che sono stati invocati dai rivoltosi.
A quei detenuti che, invece, hanno «manifestato le proprie paure e la propria sofferenza con responsabilità e senza violenza», Bonafede assicura che il Governo e il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria non sono rimasti a guardare. «E’ giusto ascoltare anche le rivendicazioni dei detenuti che rispettano le regole e dimostrano di seguire un percorso di rieducazione vero». E dunque passa a enunciare le iniziative adottate, spiegando che la limitazione dei colloqui coi parenti (prevista solo per quindici giorni), è una solo una necessaria finestra temporale per gestire l’emergenza. Ricorda inoltre che all’interno delle prigione sono state disposte delle iniziative per informare la popolazione detenuta; che si sta procedendo a relazione degli spazi per consentire un eventuale isolamento in presenza di un caso sospetto; che sono state allestite 83 tensostrutture per effettuare i «pre-triage per i nuovi giunti», allo scopo di evitare che i detenuti ingresso portino con sé anche il virus; che ieri è arrivata la «prima fornitura di 100mila mascherine» da dare agli operatori che entrano in carcere. E, dunque, per rispondere – sul piano politico – a chi lo accusa di essere portatore sano di una visione securitaria della giustizia, che non tiene conto dei diritti dei detenuti, rivendica risultati «sinora mai raggiunti».
«Sono stati immessi in servizio 2548 agenti in più, di cui 1500 già in servizio e 754 prossimamente. E’ stato attivato un numero di protocolli di lavoro per i detenuti che non ha precedenti per rafforzare il profilo della rieducazione», sottolinea. Come dire: non è vero che il Guardasigilli è indifferente alla popolazione carceraria. Quindi il ministro lancia un appello: «Il nostro impegno è evitare la diffusione del virus in carcere. Ma tutti questi sforzi profusi dall’amministrazione rischiano di essere compromessi gravemente dalle rivolte di questi giorni, che hanno causato l’inabilità di un numero elevatissimo di posti detentivi. Bisogna mantenere la calma. Ma con una consapevolezza: lo Stato italiano non indietreggia un centimetro di fronte all’illegalità».
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mercoledì, 11 Marzo 2020 - 15:43
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