«Sono state ore interminabili. Abbiamo temuto il peggio. E il paradosso è che alla fine ci hanno liberati i detenuti. Io oggi chiedo solo di capire cosa è successo. Perché, pur sapendo che c’era una situazione di pericolo, ci hanno fatto entrare in infermeria a lavorare? Perché nessuno ci ha tirati fuori?».
Desiree De Salvo è medico specialista psichiatra e lavora al carcere di Melfi, in Basilicata. Una settimana fa, quando nel penitenziario – che ospita 200 detenuti – è scoppiata la rivolta, De Salvo era all’interno dell’infermeria insieme ad altri quattro colleghi (due infermiere, un medico di base e un odontoiatra). E’ entrata intorno alle 14.00 e ne è uscita solo verso mezzanotte. «Per fortuna non ci è successo niente, ma è stato terribile. Perché eravamo chiusi dentro, le chiavi dell’inferriata non c’erano. Non potevamo liberarci e nessuno ha fatto irruzione per tirarci fuori», dice.
Quando l’incubo è finito la dottoressa De Salvo si è rivolta all’avvocato Marco Spena del Foro di Napoli ed ha sporto denuncia. Una denuncia con la quale si chiede alla procura di accendere i riflettori sulla gestione delle iniziative di contenimento della rivolta. «Io sono arrivata in carcere intorno alle due. Ero insieme al medico generale all’odontoiatra. Abbiamo timbrato e poi abbiamo sostato nel portierato dove vi è poi l’accesso all’infermeria – racconta – Non ci hanno fatto entrare subito e questo ci è parso strano. Abbiamo capito che c’era qualcosa che non andava, ma nessuno ci ha detto niente. Ci hanno detto di aspettare. Poi qualcuno ha detto al medico generale che si poteva entrare e abbiamo raggiunto l’infermeria». L’infermeria si trova tra due sezioni del penitenziario ed è un locale ricavato in una cella, ragione per la quale la porta di ingresso è la classica inferriata della cella. Per una mezz’ora il lavoro si è svolto regolarmente, poi all’improvviso la situazione è cambiata.
«Ci hanno detto che le visite erano sospese e che dovevamo chiudere il cancello, perché i detenuti che erano risaliti dal passeggio non volevano rientrare nelle celle», dice. E’ stata questione di minuti e nel carcere di Melfi si è scatenato l’inferno. «Dall’infermeria potevamo vedere cosa stava accadendo: abbiamo visto detenuti che smontavano mobili, che hanno rotto vetri, varie cose», aggiunge la dottoressa De Salvo. Nel frattempo qualcuno ha chiuso l’inferriata e si è liberato delle chiavi. «Da lì in poi è stato un crescendo di paura – dice il medico – Io ho iniziato a chiamare al 112, al 113, al 115… chiedevo se ci consentivano una via di fuga. La preoccupazione è che se ci fosse stato uno scontro noi potevamo rischiare. O, peggio, temevano un incendio e noi non potevamo uscire perché, non so chi, ha buttato via le chiavi e non c’era possibilità di aprire l’inferriata se non sradicandola». Ma niente. Dall’esterno raccomandavano di stare calmi, assicurando che le forze dell’ordine erano pronte ad intervenire e che era in corso una mediazione con i detenuti.
«Non finiva mai. Io mi sono anche sentita male – prosegue il medico – Era una situazione assurda. A un certo punto i detenuti ci hanno portato coca cole e brioscine che avevano preso dai distributori. E, alla fine, intorno alla mezzanotte sono stati loro a liberarci: hanno sradicato l’inferriata e ci hanno fatto uscire. Abbiamo percorso il corridoio e raggiunto un’altra inferriata che era barricata con materassi ed altro. Loro hanno tolto tutto via e ci hanno fatto uscire dal carcere. All’esterno ho trovato la direttrice e le forze dell’ordine». Ora la dottoressa De Salvo chiede di sapere perché nessuno è intervenuto, se la gestione della rivolta è stata corretta: «Io voglio sapere perché anzitutto ci è stato consentito di entrare quando si era capito che c’era una situazione di tensione. Perché nessuno ci ha fermati? Io mi sono sentita privata dalla libertà, mi sono sentita in pericolo».
Per questa ragione la dottoressa ha sporto denuncia. «Attendiamo che la magistratura faccia il suo corso sulla vicenda denunciata dalla psichiatra De Salvo. Certamente, gli ultimi episodi, verificatisi nelle carceri italiane e senza alcun dubbio da condannare, pongono in rilievo ancora una volta le carenze strutturali. Sarebbe opportuno dare concretezza al carcere come extrema ratio, limitando il ricorso alla custodia cautelare in carcere soprattutto nei confronti di persone in attesa di giudizio, nel rispetto della presunzione di innocenza, della dignità e del minor sacrificio possibile della libertà personale. I deficit strutturali insieme al problema del sovraffollamento carcerario possono rappresentare una bomba ad orologeria», ha commentato l’avvocato Marco Spena.
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lunedì, 16 Marzo 2020 - 11:41
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