Giuseppe Conte lo aveva anticipato quasi in conclusione della conferenza stampa di martedì scorso convocata per ufficializzare la proroga del lockdown sino al 13 aprile: prima o poi l’Italia dovrà ripartire e dovrà farlo con il Coronavirus ancora in circolazione. L’ha chiamata ‘fase due ‘e sarà, sotto il profilo psicologico, quella più stressante. «Le misure saranno allentate e bisognerà convivere col virus», ha spiegato il premier.
Sarà un gioco di equilibrio, uno stare in bilico tra la speranza di tornare alla normalità e la paura consapevole di ammalarsi, ché il Covid 19 sarà ancora in giro solo che non ci sarà lo scudo della ‘quarantena’ obbligatoria a sbarrargli la strada. Le uniche difese resteranno le accortezze, l’uso di guanti e mascherine che magari diverranno obbligatorie abbinanato a più test con kit rapidi, e la rinuncia alle tavolate al ristorante o alle piste affollate in discoteca. Si dovrà cambiare stile di vita e sarà più complesso della ‘clausura’ sin qui osservata, perché sarà una lotta costante e quotidiana con gesti spontanei come la stretta di mano o un abbraccio o come il salire insieme in ascensore; perché sarà un costante diffidare di chi ti sta di fronte. L’altro sarà inevitabilmente percepito come potenziale ‘untore’ e quindi da evitare.
Convivere col virus per ripartire, dunque. Come qualche giorno fa aveva detto Matteo Renzi, poi massacrato per le sue dichiarazioni. Ipotesi che oggi sembra essere stata ‘sdoganata’. Se ne parla sempre più spesso e il termine ‘fase due’ comincia a popolare le dichiarazioni di più esponenti politici oltre che degli imprenditori. E’ una strada inevitabile: attendere che il contagio si azzeri in tutta Italia richiederebbe mesi e uno stop a tempo indeterminato della parte produttiva del Paese condurrebbe tutti nel baratro del crack. Né, tra l’altro, gli esperti sono in grado di prevedere se e quando il Covid-19 possa essere del tutto sconfitto. Un vaccino, del resto, ancora non c’è.
L’unico punto di riferimento verso il quale si può volgere lo sguardo è la Cina, che prima di noi ha affrontato il Coronavirus arrivando a blindare l’intera provincia di Hubei e adottando misure di isolamento sociale e di controllo dei cittadini da fare sembrare quasi inutile il nostro modello di lockdown.
La vita, nella provincia di Hubei e del suo capoluogo Wuhan (epicentro dell’epidemia), è tornata a scorrere, con un approccio graduale di recupero delle vecchie abitudini, ma il Coronavirus non ha mai mollato la presa. È solo sembrato uscire dai radar, salvo ripresentarsi minaccioso. È notizia dell’altro ieri che la contea di Jia, nella provincia dell’Henan che confina a sud con quella dell’Hubei, è stata sottoposta a isolamento con provvedimento d’urgenza, secondo quanto comunicato dalle autorità sanitarie locali sui social media, a causa della rilevazione di “diversi casi di infezione”. Secondo un modello ampiamente sperimentato, tutte le aziende sono state chiuse ad eccezione quelle strategiche, mentre un solo componente per famiglia sarà autorizzato a uscire ogni due giorni per acquistare beni necessari.
La ‘fase due’ italiana, dunque, includerà anche l’ondata di ritorno del virus. Proprio per questa ragione ci si dovrà assicurare che il sistema sanitario, già provato, riesca a reggere l’urto. Per fare ciò sarà necessario che gli ospedali si presentino all”appuntamento’ con posti liberi di terapia intensiva e posti letto ‘semplici’ per i ricoveri di pazienti più problematici ma non gravi. Altrimenti si rischierà un nuovo collo di bottiglia. E i numeri per ora non ci sono. Né nel provatissimo Nord né tantomeno al Sud, che ancora attende il ‘picco’ sperando che le vette non siano quelle altissime della Lombardia o dell’Emilia Romagna.
Tuttavia ci si sta già preparando verso questa strada. Sono giorni che, durante le conferenze della Protezione civile convocate per fare il punto dell’andamento del contagio e delle vittime, Angelo Borrelli ha inserito, non a caso, un nuovo dato: il numero dei nuovi ricoverati sia in terapia intensiva che ospedalizzati. Gli accessi ai nosocomi, è stato fatto notare, sono diminuiti. Sensibilmente. Ma questo sta alleggerendo la pressione sugli ospedali. E sarà proprio il fattore posti letto nuovamente disponibili a segnare l’avvio della ‘fase due’. O, almeno, si spera. E’ evidente, dai numeri, che sarà impossibile riuscire ad avere ospedali liberi entro il 13 aprile. Ecco perché già si fa largo l’ipotesi di spostare sino al primo maggio la linea del lockdown. Tutto è nelle mani degli esperti.
Dopodiché, quando arriverà il momento di ‘convivere col virus’, spetterà al Governo farsi carico di scelte anche più coraggiose, impattanti e tempestive di quelle sin qui assunte. In caso di nuove ondate di ritorno del Covid 19, il Governo dovrà pensare concretamente alla possibilità di varare singole ‘zone rosse’. Chiusure a macchia di leopardo, come inizialmente è stato fatto per il Basso Lodigiano e per Vo’ Euganeo. Come si sarebbe dovuto fare nel Bergamasco, quando ci si è resi conto che Nembro ed Alzano Lombardo erano due ‘focolai’. Qui però nessuna delle autorità competenti, Governo o Regione, ha ordinato la serrata, lasciando di fatto i cittadini esposti alla furia di un virus che ha decimato la popolazione e ha cancellato la sua memoria storica, finendo con l’espandersi in tutta la Lombardia per poi allungare i suoi tentacoli sul resto d’Italia.
Le ragioni economiche hanno preso il sopravvento sulla tutela della salute: nella sola provincia di Bergamo vi sono 1851 imprese che garantiscono prodotti e servizi essenziali e che occupano 50mila dipendenti. Numeri che fanno piazzare Bergamo sempre in cima all’elenco delle città italiane per incidenza percentuale dei redditi da impresa. Ma una ‘fase 2’ non dovrebbe più anteporre gli interessi economici a quelli della salute. Perché ostinandosi a non fermare la regione e le città più produttive d’Italia, si è condannato un Paese intero a un lockdown dal quale, soprattutto in un Sud più debole sul piano economico, sarà complicato e lungo riprendersi.
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venerdì, 3 Aprile 2020 - 17:41
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