Un reato «non sufficientemente chiaro» all’epoca dei fatti contestati, che pertanto non consentiva all’accusato di «conoscere nello specifico la pena in cui incorreva per la responsabilità penale che discendeva dagli atti compiuti». Era il 14 aprile del 2015 quando i giudici della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo sanzionarono l’Italia per la condanna a 10 anni di carcere inflitta a Bruno Contrada per concorso esterno in associazione di stampo mafioso.
Quella sentenza ha fatto da apripista al risarcimento danni per ingiusta detenzione, che chiude una sofferta battaglia legale. I giudici della Corte d’Appello di Palermo hanno riconosciuto all’ex numero due del Sisde, che oggi ha 88 anni, un risarcimento da 670mila euro. Una decisione, tuttavia, che non fa ritenere Contrada soddisfatto: «I soldi non mi interessano. Dieci euro al giorno non mi bastano», ha commentato. Per via di quell’accusa Contrada ha trascorso 4 anni in carcere e 4 anni ai domiciliari (ha terminato di scontare la pena nel 2012). E le ripercussioni che l’accusa ai suoi danni ha avuto sulla sua carriera e sulla salute di chi gli stava accanto sono state notevoli. Nato a Napoli ed entrato in polizia quando aveva 27 anni, Contrada si distinse per la brillante carriera svolta in Sicilia tanto che nel 1982 iniziò a lavorare per i servizi segreti civili (SISDE) e nel 1986 divenne il terzo dirigente dell’agenzia in ordine di importanza. Poi, d’improvviso, tutto fu cancellato e messo in discussione. «Io e la mia famiglia abbiamo subito danni irreparabili Non ci sono soldi per pagare le sofferenze che la mia famiglia ha subito. Mio figlio che era poliziotto è gravemente malato: un giovane che ha visto il padre, dirigente generale della polizia di Stato, la stessa di cui lui indossava la divisa che per lui era un mito, arrestato e accusato di cose gravissime – ha spiegato – Mia moglie che si è ammalata di cuore subito dopo il mio arresto. Ci può essere risarcimento? Spione, agente segreto, sempre appellativi per gettarmi fango addosso. Io sono un dirigente generale della Ps applicato ai servizi di sicurezza che da vicecommissario ha scalato tutti i gradi della Polizia di Stato». La difesa, rappresentata dall’avvocato Stefano Giordano, ha spiegato che valuterà le motivazioni della sentenza sul risarcimento danni per capire se ci sono «eventuali spazi per l’impugnazione avanti la Corte di Cassazione».
Tortuosa la battaglia legale di Contrada per vedere cancellare quell’accusa. Dopo la condanna definitiva a 10 anni, Contrada cercò di ottenere la revisione del processo ma senza successo: il ricorso fu dichiarato inammissibile. Così Contrada si rivolse alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo. Nel 2015 i giudici della Cedu hanno condannato l’Italia a risarcire il funzionario, nel frattempo radiato dalla polizia, sostenendo che non andava processato né condannato perché il reato di concorso esterno in associazione mafiosa ha assunto una dimensione chiara e precisa solo con la sentenza Demitry, del 1994. E Contrada era finito davanti ai giudici per fatti precedenti a quella data. Uno spunto, quello della pronuncia della Cedu, che il legale di Contrada ha usato per chiedere, tramite un incidente di esecuzione, la revoca della condanna. Ma la Corte d’appello di Palermo giudicò il ricorso inammissibile. Tutto fu ribaltato nel 2017 dalla Corte Cassazione che revocò la condanna ritenendola «ineseguibile e improduttiva di effetti penali» e privando il verdetto della eseguibilità e degli effetti penali.
Oggi l’ultimo traguardo del risarcimento per la detenzione illegittima. Bruno Contrada venne arrestato il 24 dicembre del 1992 perché accusato, sulla scorta delle dichiarazioni di alcuni pentiti (come Gaspare Mutolo, Tommaso Buscetta, Giuseppe Marchese e Salvatore Cancemi) di avere favorito la mafia siciliana tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta. Un’accusa che Contrada ha sempre respinto: l’ex numero due del Sisde ha sempre spiegato di avere sì avuto contatti con esponenti di Cosa Nostra ma che essi servivano per provare ad infiltrarsi nell’organizzazione. Non è stato creduto. In primo grado fu condannato a 10 anni, ma la sentenza fu ribaltata in appello e il funzionario venne assolto. L’ennesimo colpo di scena ci fu in Cassazione, quando l’assoluzione fu annullata con rinvio e il processo tornò alla corte d’appello di Palermo che, il 25 febbraio del 2006, confermò la condanna a 10 anni.
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martedì, 7 Aprile 2020 - 14:57
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