Da un lato c’è la tesi di chi sostiene che il processo da remoto è il solo strumento possibile, in questo scenario di emergenza, da adottare per bilanciare l’esigenza di riprendere l’attività giudiziaria e la tutela della salute degli operatori della Legge. Dall’altro lato c’è la strenua difesa della non smaterializzazione del processo, nel timore che l’emergenza diventi prassi e che il ruolo del difensore finisca con l’essere svilito, se non cancellato.
Ma al di là delle prese di posizione, c’è una domanda che non è stata ancora messa sul tappeto e dalla quale si dovrebbe partire per capire se il processo da remoto è una soluzione percorribile oppure no: come funziona nella pratica l’udienza fuori dall’aula celebrata mediante collegamento? In alcuni casi male, malissimo. La risposta arriva dalle ‘aule virtuali’. Arriva dalla realtà, che restituisce il più efficace metro di valutazione.
Tribunale di Napoli, 6 maggio: processo per direttissima a carico di un uomo arrestato per evasione dai domiciliari perché sorpreso davanti all’uscio di casa, un basso, mentre stava spazzando cumuli di immondizia che i cani avevano trascinato davanti la porta dopo avere rotto i sacchetti depositati in strada. Il processo si celebra da remoto. L’avvocato dell’arrestato viene informato 24 ore prima della fissazione dell’udienza e invitato a scegliere se collegarsi dal suo studio o se raggiungere la caserma dei carabinieri di Bagnoli abilitata al collegamento col giudice. Il legale, Alessandro Maresca, opta per la presenza in caserma, anche in virtù del fatto che è lì che il suo cliente è stato trasferito per assistere al processo. A questo punto i militari ‘notificano’ l’inizio della video-conferenza alle 9.30. Il giorno seguente alle 9,15 tutte le parti – imputato, avvocato, carabiniere che ha eseguito l’arresto e carabinieri di Bagnoli che devono attivare il video-collegamenti, sono in postazione (e tutte ovviamente indossano le mascherine): un ufficio ordinario di una decina di metri quadrati, con tanto di scrivanie e pc che rendono complicato mantenere il metro di distanza. Ad azzerare poi ogni distanza vi è il fatto che nessuno dei pc nella stanza può essere usato per il processo da remoto perché sono vecchi e così si fa ricorso al portatile di un maresciallo, che ha un monitor non molto grande. In una deserta aula di udienza del Tribunale vi sono il giudice e il cancelliere, mentre il pubblico ministero – con tanto di mascherina – è collegato nel suo ufficio.
Arrivano le 9.30 ma il collegamento non parte. Si attende ancora, c’è qualcosa che non va. Problemi tecnici, dicono i carabinieri all’avvocato. E si va avanti così, in un’estenuante attesa, sino alle 12.30 quando finalmente il collegamento si attiva. L’avvocato Alessandro Maresca solleva immediatamente un’eccezione per la mancata osservanza della misura del distanziamento sociale, ma il giudice la respinge alla luce del fatto che la Camera penale di Napoli ha firmato un protocollo per le direttissime da remoto. A questo punto si pone il primo problema della gestione delle parti: nella caserma di Bagnoli vi è un solo pc, non molto grande, che deve essere utilizzato dal carabiniere che ha effettuato l’arresto, dall’imputato che deve assistere e rendere dichiarazioni, e dall’avvocato che deve porre le domande al teste di pg. Momento di imbarazzo generale, che viene risolto solo col buon senso che però restituisce una scena fantozziana: si fa a turno, a seconda di chi deve parlare. Una sorta di gioco della sedia.
Non solo: l’avvocato pone al carabiniere le domande tutte di seguito, e il teste risponde a tutti gli interrogativi in una sola soluzione, ciò allo scopo di evitare di doversi alternare sulla sedia un minuto sì e l’altro pure. Tutto questo mentre, a tratti, l’imputato – presente in stanza – protesta per alcune ricostruzioni del carabiniere, l’avvocato gli dice di stare calmo e il giudice, sentendo solo le voci fuoricampo, chiede conto di cosa stia accadendo. Tutto questo mentre il collegamento si mette a fare le bizze: così capita che a volte l’immagine del pm si blocchi, che il giudice non senta o che non sentano le parti. Tutto questo in assenza del ‘deposito’, mediante mail o condivisione di un link, del fascicolo del pubblico ministero, che la difesa a un certo punto decide di non chiedere prevedendo che sarebbe trascorsa un’altra giornata per soddisfare una eventuale sua richiesta. Le lancette dell’orologio, nel frattempo, scorrono. Il pm chiede la convalida del fermo, la difesa si oppone e il giudice convalida. Quindi si procede con la requisitoria del pm (richiesta di condanna di un anno) e l’arringa della difesa. Arriva la sentenza, che è di assoluzione per lieve entità del fatto. Sono le 13.45. Quattro ore per celebrare una sola udienza. E’ il processo da remoto, bellezza.
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sabato, 9 Maggio 2020 - 10:06
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