Una trasformazione degna del romanzo Dottor Jeckyll e Mister Hide. Da competente, generoso e stimato medico a primario che non esita a somministrare farmaci letali a pazienti pur di decongestionare l’ospedale. Le accuse messe nero su bianco dal gip del Tribunale di Brescia Angela Corvi nei confronti del primario del Pronto soccorso dell’ospedale di Montichiari (Brescia) Carlo Mosca, arrestato ieri, sono sconvolgenti. A marzo, nel pieno dell’epidemia e con gli ospedali lombardi in preda al caos e al sovraffollamento, «è verosimile che l’indagato si sia determinato a uccidere poiché mosso dalla volontà di liberare non solo e non tanto posti letto, bensì risorse strumentali ed energie umane, fisiche ed emotive dei colleghi medici, degli infermieri e di tutti gli operatori del pronto soccorso». Per ‘alleggerire’ le corsie, che in quei giorni drammatici per la Lombardia si riempivano di ammalati, Mosca avrebbe somministrato due farmaci: succinilcolina e propofol, anestetici che si utilizzano prima della delicata operazione di intubazione dei pazienti perché irrigidiscono i muscoli. In questo caso però, secondo l’accusa, avrebbe utilizzato questo mix di farmaci per almeno due pazienti, senza che ve ne fosse la necessità, visto il loro quadro clinico, così provocandone una morte terribile. Questi farmaci, se usati quando non è prevista né necessaria la sedazione per intubare, portano infatti al soffocamento, all’apnea e all’arresto cardiaco senza che il paziente perda mai coscienza. Decessi causati «consapevolmente», secondo il gip, e con quell’assurdo movente. Due i decessi finiti sotto la lente della Procura di Brescia, quelli di Natale Bassi e Angelo Paletti, arrivati al pronto soccorso di Montichiari tra il 20 e il 22 marzo in crisi respiratoria. A loro, sostiene l’accusa, sarebbero stati somministrati quei medicinali pur non essendo necessario. Tracce di questi farmaci sono state rinvenute nel corso dell’esame compiuto dopo l’esumazione delle salme disposta dalla Procura. Mosca, però, attraverso i suoi legali, nega ogni addebito.
A suffragio della tesi degli inquirenti, vi sono anche intercettazioni che sono finite agli atti. In una, un infermiere chiede a un collega se anche a lui il primario «ha mai chiesto di fare la succinilcolina o del propofol a pazienti che stanno morendo». «Ti chiedo – continua il messaggio – di non dirlo a nessuno. Ultimamente lo sta chiedendo ad alcuni di noi e siccome non ho intenzione di uccidere nessuno…Io non ci sto ad uccidere pazienti solo perché vuole liberare letti». Messaggio cui il collega infermiere risponde: «Sono d’accordo con te, questo è pazzo».
Prima di questa inchiesta, per tutti Carlo Mosca era un professionista irreprensibile. Quarantasettenne originario di Cremona, ha studiato Medicina a Brescia poi lì è rimasto per esercitare. Assunto all’ospedale di Montichiari nel 2018, sul suo curriculum nessuna macchia. Nel 2020 affronta la pandemia da uno degli avamposti del virus, quella provincia di Brescia assediata dai contagi come Bergamo. Lui è tra gli angeli che salvano tante vite, viene intervistato, sacrifica la propria vita personale affittando un piccolo appartamento pur di non contagiare i familiari e di fatto vive giorno e notte in ospedale. Poi la presunta deviazione da una condotta brillante e immacolata. Le richieste di somministrare farmaci sapendo che avrebbero provocato la morte, avvenute in almeno 4 occasioni su cui indaga la Procura; i due decessi da cui parte l’inchiesta; le liti con gli infermieri che non vogliono assecondarlo. Uno di quegli infermieri la mattina del 23 marzo fotografa due confenzioni di succinilcolina e propofol in un cestino dei rifiuti, e sa che quella notte nessuno è stato intubato. Il giorno prima era morto Angelo Paletti.
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martedì, 26 Gennaio 2021 - 08:59
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