Può un’impresa ritrovarsi a un passo dal fallimento perché le viene impedito di utilizzare il denaro che ha disposizione? Sì, può quando le regole del sistema bancario sul ‘controllo’ dei conti correnti si intrecciano con la normativa che fissa il tetto (oggi a 2mila euro) per la circolazione dei contanti. Una combo micidiale divenuta oggetto di una questione di legittimità costituzionale che va a toccare uno dei temi di maggiore contesa politica: il libero utilizzo del denaro in moneta contante oltre la soglia dei 2mila euro.
La storia arriva da Napoli e ha per (sfortunata) protagonista un’impresa di costruzioni, la Orchidea Immobiliare, impegnata nella realizzazione di un complesso residenziale a Pomigliano d’Arco e adesso al centro di una battaglia legale intrapresa dall’avvocato Riccardo Guarino e dal notaio Alessandro Zampaglione allo scopo di consentire all’azienda di non morire.
Tutto ha inizio nell’ottobre del 2018 quando la socia di minoranza (con quote pari al 20%) subisce un provvedimento di sequestro preventivo. Per effetto del provvedimento Intesa Sanpaolo e Ubi Banca chiudono i contratti di conto corrente bancario con la Orchidea Immobiliare in quanto il rating ‘antiriciclaggio’ sarebbe stato troppo basso. Una decisione che fa piombare la società in un pericoloso immobilismo economico.
La chiusura dei conti e l’impossibilità di aprirne altri presso diversi istituti di credito (nessun istituto bancario ha accolto l’azienda sia a causa del provvedimento di sequestro in capo alla socia di minoranza sia a causa dei sopravvenuti protesti) priva l’azienda della disponibilità finanziaria e dunque degli strumenti necessari a pagare alcuni effetti cambiari, domiciliati presso i conti chiusi, con la conseguenza che i titoli di credi sono stati protestati. Eppure la società ha disponibilità economiche: l’azienda, infatti, procede alla vendita degli immobili realizzati, per non risultare inadempiente ai preliminari sottoscritti con gli acquirenti, e incassa alcuni assegni circolari in pagamento, nella speranza di riuscire a superare l’ostacolo e aprire un nuovo conto. Cosa che non accade. Così la società si ritrova con in mano assegni che non può incassare e utilizzare per evitare le azioni dei creditori che minacciano di presentare istanza di fallimento. Né all’azienda viene concessa dalle banche la possibilità di trasferire il denaro, mediante procura speciale all’incasso pure presentata, all’impresa che detiene l’80% delle quote societarie della Orchidea Immobiliare: le banche, infatti, rigettano l’istanza appellandosi all’articolo 43 della legge assegni sui divieti in caso di non trasferibilità dei titoli. Una situazione kafkiana oggi al centro di un’azione legale di natura civile.
Nell’interesse della Orchidea Immobiliare l’avvocato Riccardo Guarino ha presentato un ricorso d’urgenza per consentire alla società di avere un proprio conto corrente o quantomeno di operare tramite la procura speciale già bocciata. Ed è proprio in questo contesto che si innesta l’eccezione di legittimità costituzionale del limite alla circolazione del contante e dei titoli all’ordine.
Il legale ha evidenziato come l’incresciosa situazione di non potere disporre dei propri ricavi né dei propri risparmi in cui attualmente versa la società Orchidea Immobiliare costituisce una violazione degli articoli 3, 41 e 47 della Costituzione. «Il limite al trasferimento del contante (oggi fissato in euro 2mila), nel caso in cui un soggetto giuridico non possa disporre di un conto corrente bancario, comporta una fortissima limitazione dei diritti di quel soggetto» e «ci si troverebbe dinanzi a un apolide finanziario». In particolare, incalza il ricorso, «si può ravvisare una disparità di trattamento, in violazione dell’articolo 3 della Costituzione, rispetto agli altri soggetti dell’ordinamento economico-giuridico, non consentendo ai soggetti privi della possibilità di aprire un conto corrente di esercitare i propri diritti finanziari, di tutelare il proprio risparmio e di esercitare, liberamente, l’attività di impresa». La violazione dell’articolo 41 della Costituzione per il quale «l’iniziativa economica privata è libera» si ravvisa perché «la ‘non inclusione finanziaria’, dovuta a circostanze non dipendenti dalla volontà del soggetto, impedisce all’imprenditore di svolgere la propria attività di impresa, essendo costretto, dalla normativa vigente, a ricevere e ad eseguire tutti i pagamenti a mezzo di intermediari. E’ ovvio che, qualora non ci possa avvalere di tali intermediari, ci si trova completamente esclusi dal circuito imprenditoriale, finanziario e sociale».
Nel caso oggetto del ricorso «la società viene esposta ad iniziative esecutive individuali o ad istanze di fallimento non perché non ha il denaro sufficiente per pagare i propri creditori bensì perché tre danaro non può essere utilizzato». Infine, la vicenda calpesta anche l’articolo 47 della Costituzione («La Repubblica incoraggia e tutela il risparmia in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito») perché «non si vede come sia possibile che non venga tutelato il risparmio in denaro contante, che ls è la forma più immediata di ricchezza»). «E’ è vero che la norma vigente non impedisce di risparmiare – incalza l’avvocato carino – ma impedisce di spenderlo oltre la soglia dei 2mila euro. Pertanto il divieto di spendere denaro sopra la soglia limite, comporta, ineluttabilmente, un disincentivo (e non certo una tutela) a tale tipo di risparmio».
lunedì, 24 Maggio 2021 - 17:30
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