Sono ben dieci i collaboratori di giustizia che hanno riferito alla Direzione distrettuale antimafia dell’esistenza di un giro di spaccio di droga all’interno del carcere di Secondigliano a Napoli.
Un plotone di dichiaranti ritenuti attendibili dal giudice per le indagini preliminari Isabella Iaselli del Tribunale di Napoli che ha vagliato l’inchiesta della procura dando il via all’esecuzione di 26 misure cautelari, di cui 22 in carcere e 4 ai domiciliari.
I pentiti che hanno fornito un contributo dichiarazioni ritenuto «rilevante» sono Vincenzo Amirante, Antonio Di Roberto, Giuseppe Grillo, Ciro Niglio, Massimo Pelliccia, Cristiano Piezzo, Fortunato Piezzo, Salvatore Romano, Tommaso Schisa, Vincenzo Topo.
Tutti loro provengono da contesti criminali diversi: Amirante è il padre dei più noti Salvatore e Raffaele, esponenti della cosiddetta ‘paranza dei bambini’ che opera nel ventre molle di Napoli; Di Roberto ha ammesso la partecipazione al clan Sebastiano-Bellofiore e poi al clan Longobardi-Beneduce; Giuseppe Grillo è un casertano, ha fatto parte del clan Belforte e poi dei Piccolo-Letizia; Ciro Niglio è stato un esponente degli Abrunzo-Valda, scissionisti del clan Aprea-Cuccaro-Andolfi; Cristiano Piezzo e il figlio Fortunato, unitamente a Massimo Pelliccia, hanno fatto parte del clan dei Mariglianesi, legato ai Mazzarella; Salvatore Romano ha militato dapprima nel clan Lago e poi nel gruppo Mele, sempre a Pianura; Tommaso Schisa è un esponente del clan Schisa-De Luca Bossa-Minichini operante a Ponticelli; Vincenzo Topo ha fatto parte del clan di Giuseppe Avventurato.
Sulla loro credibilità il gip, al pari della procura, non nutre dubbi. «Non avrebbero avuto alcuna necessità, per accreditarsi coi i magistrati inquirenti, di mettere a rischio il programma di protezione e i benefici ricevuti per accusare falsamente detenuti ed agenti di polizia penitenziaria» dal momento che, osserva il gip, «tutti hanno raccontato episodi delittuosi ben più gravi, riferimento del programma criminoso delle organizzazioni di stampo camorristico cui erano partecipi, senza tacere della partecipazione ad agguati mortali».
Quanto al ‘ritardo’ delle dichiarazioni rese sul punto da alcuni pentiti, il gip fornisce una giustificazione: «Per ciascuno è stato non semplice, specie se ancora detenuti, tradire un patto ancora più profondo di quello che lega gli associati a un clan, vale a dire il patto di omertà che esiste all’interno del carcere tra detenuti che condividono la medesima sorte. Non è un caso che gli stessi (dopo qualche timido accenno nelle prime fasi della collaborazione) abbiano raccontato quanto accadeva nel carcere solo a distanza di tempo, quando il pm ha proceduto ad interrogatori su questo specifico tema, anche alla luce delle dichiarazioni raccolte nel procedimento a carico di un agente di polizia penitenziaria, arrestato e condannato a 5 anni di reclusione per corruzione». Il riferimento è all’agente Ottavio De Simone che, nel penitenziario di Secondigliano, era addetto alla spesa.
I pentiti (alcuni di loro) hanno gettato luce anche sui rapporti corruttivi con alcuni agenti della Polizia penitenziaria, parlando di un vero e proprio tariffario circa i compensi agli agenti per alcuni favori illeciti. Ad un agente, ad esempio, sarebbero stati corrisposti anche 5mila euro per consentire a un detenuto di uscire dall’isolamento.
lunedì, 21 Marzo 2022 - 19:39
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