De Magistris 5: incassa endorsement illustri dall’estero (Mélenchon, Iglesias, Corbyn), ma non dà l’impressione di sfondare. Molto presente in tv, non pare, tuttavia, aggregare folle di elettori. Il suo progetto mostra spunti interessanti, ma così rischia di restare un’incompiuta. Cioè l’ennesimo cartello elettorale, destinato a scomparire dopo il voto, se le urne non dovessero premiarlo.
Letta 4: rompe l’alleanza con i 5 Stelle, in nome dell’agenda Draghi, alleandosi con Calenda. Poi imbarca Verdi e Sinistra Italiana, ostili a Draghi, e viene scaricato da Calenda, il quale recupera il nemico (di Letta) Renzi, destinato a scomparire, se fosse rimasto solo. Nel frattempo, i 5 Stelle di Conte – usciti con le ossa rotte dal governo Draghi – risalgono vistosamente nei sondaggi, resuscitati dal divorzio col Pd. L’unica intuizione giusta di Letta? L’appello al voto utile, per arginare il centrodestra, dato nettamente avanti. Peccato che gli elettori potrebbero usarlo contro il Pd, optando (al Sud) per i pentastellati, più performanti dei dem nei collegi meridionali. Letta sembra aver sbagliato tutto quanto poteva sbagliare.
Bonino 5: incide assai poco.
Fratoianni 7: riuscirà da anti draghiano nel capolavoro di farsi rieleggere, insieme a un pugno di fedelissimi, dopo essersi alleato con i draghiani del Pd. La politica è l’arte del possibile, ma anzitutto della sopravvivenza.
Speranza 5: la notizia è che Articolo 1, nato da una scissione nel Pd e di cui è leader – è di fatto rientrato nel Partito Democratico. Il problema è che nessuno se n’è accorto.
Di Maio 4: la cosa che più si ricorda di lui, in campagna elettorale, è il video in cui è sollevato, sulle note di Dirty Dancing, da uno stuolo di camerieri, nella trattoria Nennella a Napoli. E per uno che è ministro degli Esteri in carica, durante la più grave crisi internazionale dai tempi della Guerra Fredda, è tutto dire.
Conte 7: ad Enrico Letta, nonostante tutto, dovrebbe fare un monumento: senza il ripudio dem, il M5S difficilmente si sarebbe rianimato, tramortito com’era da 4 anni di governo con tutta la casta, dopo essere sorto in disprezzo alla casta. E senza scordare la ciliegina sulla torta: ingoiare il rospo Draghi, un tempo considerato emblema degli odiati poteri forti. Conte, però, ha saputo giocarsi la chance del destino. Ha solcato le piazze del Sud, roccaforte grillina, difendendo a denti stretti il Reddito di Cittadinanza. Ha percorso un’altra prateria, lasciata sguarnita dal Pd, come l’antimafia, arruolando le ex toghe Cafiero de Raho e Scarpinato. E ora si presenta all’incasso, in prepotente ascesa, pregustando la rivincita sul Nazareno.
Renzi 6: con consensi ridotti al lumicino – secondo i sondaggi – anche lui ha colto al volo l’occasione, regalatagli dalle sliding doors del Pd. Riabbracciato l’ex (?) nemico Calenda, in fuga dai dem, ha lanciato con lui il Terzo Polo. Il listone centrista consentirà a entrambi di scavallare, agevolmente, la tagliola del 3%, temuto sbarramento di inizio campagna elettorale. Una quota che la lista unitaria potrebbe perfino triplicare, o comunque doppiare. Risolto l’impiccio di tornare, assieme al Giglio Magico, in Parlamento, si metterà alla finestra, osservando lo scenario post voto. E lì inizierà la vera partita di Renzi, in perenne crisi di elettori, ma sempre maestro nelle trame di palazzo.
Calenda 6: scaricato il Pd, accusato di leso draghismo, ha continuato a candidare Draghi (a sua insaputa) al premierato bis. Poi, un giorno, un seccato Draghi ha dovuto dirsi indisponibile a tornare, dopo le elezioni, a Palazzo Chigi. Ma Calenda non se n’è ancora fatto una ragione. Come per Renzi, punta a sbarcare in Parlamento con un gruppetto di irriducibili. E poi si passerà alla conta: il Terzo Polo – destinato a fare da sparring partner nei collegi uninominali – potrebbe ridursi a una riserva indiana, per quanto rumorosa e benvoluta dai media mainstream. Ma se non dovessero esserci maggioranze ampie, allora i suoi seggi, per quanti ne siano, potrebbero spalancare il sogno: essere l’ago della bilancia, una sorta di Udeur 4.0.
Berlusconi 4: presente solo in video e – in un disperato guizzo di giovanilismo – su TikTok, assente dalle piazze, stavolta l’ex Cavaliere è un comprimario, un ologramma del primattore di tante campagne elettorali. E i consensi seguono la sua parabola. Legittimo impedimento: l’età e gli acciacchi.
Salvini 5: la percezione è quella di un ridimensionamento del progetto “Lega nazionale”. In calo di consensi, in ritirata dal Sud, dove sembrava iniziare a radicarsi. Paga la crescita dell’alleata-rivale Meloni, ma anche l’eclisse della Bestia, la sua macchina della propaganda social. Nell’era delle leadership liquide, anzi gassose, la bolla Salvini pare esplosa. Gli tocca, se ci riuscirà, venire fuori dall’angolo.
Meloni 7: ha giocato all’attacco la sua campagna elettorale, ma senza scoprirsi troppo. Come una squadra già in vantaggio, non si è fatta prendere dall’ansia. Ha sbagliato poco, non aveva esigenze di strafare, semmai l’opposto: il rischio era, ed è, quello di intaccare gli attuali consensi, in caso di passi falsi. I sondaggi sembrano premiarla ma – come lei sa – il difficile viene adesso. L’ultimo miglio è il più irto di difficoltà. Per Fratelli d’Italia tutti pronosticano un grande risultato. Fosse meno che grande, inizierebbero i problemi.
Paragone 6: tra tutte le sigle anti sistema – vere o presunte -, Italexit appare quella con più seguito. No euro, no vax, e no tante altre cose, la sfida è improba. La sua scommessa è stagliarsi, nell’arcipelago degli ostili al mainstream. Dimostra un certo mestiere: il risultato, però, non è affatto garantito.
venerdì, 23 Settembre 2022 - 23:27
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