Borsellino, l’ultima sentenza accusa: «Intimo legame tra strage e depistaggio, agenda rossa fatta sparire da Istituzioni»

di Gianmaria Roberti

A 31 anni dalla strage di via D’Amelio i misteri restano diversi. I punti fermi prova a fissarli la sentenza di primo grado del processo ai poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei (prescrizione per entrambi) e Nicola Ribaudo (assolto perché il fatto non costituisce reato), emessa il 12 luglio 2022 dal Tribunale di Caltanissetta. I tre erano accusati di calunnia aggravata (ma l’aggravante mafiosa era caduta), per la gestione del falso pentito Scarantino. Ossia per il depistaggio – reato non previsto all’epoca dei fatti – sulle indagini dell’eccidio, nel quale morirono il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti di scorta.

Nelle motivazioni depositate nei giorni scorsi, si legge che «movente della strage e finalità criminale di tutte le iniziative volte allo sviamento delle indagini su via D’Amelio sono intimamente connessi». La conclusione del collegio apre gli ennesimi scenari inquietanti. Lo stesso vale per la parallela vicenda dell’agenda rossa di Borsellino.

Il tribunale nisseno, tanto per cominciare, ne ribadisce l’esistenza, come pure presenza nella borsa del giudice ucciso. La stessa borsa – contenente l’agenda – per i giudici passò «nelle mani di Giovanni Arcangioli», ufficiale dei carabinieri, fotografato in suo possesso sulla scena della strage. Arcangioli fu prosciolto definitivamente nel 2009, dall’accusa di furto pluriaggravato del portaoggetti. I giudici nisseni, inoltre, rilevano la «ricomparsa della borsa stessa, in circostanze non compiutamente chiarite, nell’ufficio del dott. Arnaldo La Barbera». Il “superpoliziotto” La Barbera, scomparso nel 2002, guidava il il “gruppo d’indagine Falcone-Borsellino” della Polizia, e gestì la collaborazione di Scarantino. La relazione di servizio sulla consegna della borsa, ad opera di un sovrintendente, sarebbe stata redatta solo 5 mesi dopo.


«Gli elementi in campo – si legge nella sentenza – non consentono l’esatta individuazione della persona fisica che procedette all’asportazione dell’agenda senza cadere nella pletora delle alternative logicamente possibili, ma è indubbio che può essersi trattato solo di chi, per funzioni ricoperte, poteva intervenire indisturbato in quel determinato contesto spazio-temporale e, per conoscenze pregresse (importanza delle annotazioni vergate dal Dott. Borsellino), sapeva cosa era necessario/opportuno sottrarre».

Ad avviso del Collegio «solo (se e) quando si potrà stabilire al fondo, e con chiarezza, il ruolo di Giovanni Arcangioli e il ruolo di Arnaldo La Barbera — soprattutto sotto il profilo del come si coniugano tra loro i due interventi sulla borsa — si potrà fare nuova luce sul tema della sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino». In ogni caso, i giudici scrivono: «Sia che l’agenda sia sparita a pochi minuti dall’esplosione, sia che l’agenda sia sparita in un torno di tempo (immediatamente) successivo, tenere un reperto così importante per cinque mesi a decantare su un divano ha avuto certamente un’efficienza causale nello sviamento investigativo delle prime indagini, facendo venir meno l’attenzione sulla borsa e sul suo contenuto». Il Tribunale di Caltanissetta è lapidario nel designare «l’appartenenza “istituzionale” di chi ebbe a sottrarre materialmente l’agenda». A tale convinzione si arriva «a meno di non ipotizzare scenari inverosimili di appartenenti a cosa nostra che si aggirano in mezzo a decine di appartenenti alle forze dell’ordine, può ritenersi certo che la sparizione dell’agenda rossa non è riconducibile ad una attività materiale di cosa nostra».

In secondo luogo, «un intervento così invasivo, tempestivo (e purtroppo efficace) nell’eliminazione di un elemento probatorio così importante per ricostruire – non oggi, ma già 1992 – il movente dell’eccidio di Via D’Amelio certifica la necessità per soggetti esterni a cosa nostra di intervenire per “alterare” il quadro delle investigazioni», Tale azione avrebbe evitato «che si potesse indagare efficacemente sulle matrici non mafiose della strage». E qui saremmo al cuore del depistaggio di Stato. Le «matrici non mafiose», infatti, si aggiungerebbero «a quella mafiosa». Ritrovare l’agenda rossa sarebbe servito «in un ultima analisi a disvelare il loro coinvolgimento nella strage di Via D’Amelio».

Dunque, il tribunale sgombera il campo dalle illazioni: l’agenda rossa non è una leggenda urbana, e conteneva informazioni utili, forse decisive, per risalire a responsabili estranei a Cosa Nostra. Sul punto i giudici precisano: «L’esperienza giudiziaria ha insegnato come, nella sua secolare storia, l’organizzazione mafiosa “cosa nostra” non abbia mai eseguito decisioni adottate all’esterno di essa». Ne consegue «l’inesattezza dell’ormai invalsa espressione di “mandanti esterni” delle stragi, potendo al limite ipotizzarsi una convergenza di interessi con persone od enti estranei alla consorteria, magari esplicatasi nell’avvalersi del contributo di tali soggetti». Tra gli esempi eclatanti, circa l’apporto esterno, il collegio cita la circostanza raccontata dal pentito Spatuzza, già determinante per smascherare le bugie di Scarantino: la presenza di uno sconosciuto, nel garage dove si preparava l’autobomba.

I giudici quindi riassumono il quadro della convergenza tra mafia a poteri estranei ad essa. «Volendo operare una preliminare e non esaustiva sintesi – afferma la sentenza – non vi è dubbio che le dichiarazioni di Antonino Giuffrè (importante collaboratore di giustizia, ndr) in ordine ai sondaggi fatti da Riina, prima di procedere agli attentati, in ambienti esterni a cosa nostra )”; l’anomala tempistica della strage di Via D’ Amelio (a soli 57 giorni da Capaci, in un momento storico nel quale il decreto legge n. 396 varato dal Consiglio dei ministri il 08.06.1992 era in vigore da quarantuno giorni e la procedura di conversione procedeva assai a rilento a causa delle resistenze in Parlamento); la riferita presenza (da parte di Gaspare Spatuzza) del terzo estraneo al momento della consegna della Fiat 126, sabato 18 luglio 1992, nel garage di via Villasevaglios a Palermo; la sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino; l’intercettazione tra Mario Santo Di Matteo (pentito, padre del piccolo Giuseppe, ucciso dalla mafia, ndr) e la moglie del 14.12.1993 sugli infiltrati in via D’ Amelio; sono tutti elementi che possono ritenersi univocamente orientati nel senso di certificare la necessità per soggetti esterni a cosa nostra di intervenire per “alterare” il quadro delle investigazioni evitando che si potesse indagare “efficacemente” sulle matrici non mafiose della strage». Ce n’è abbastanza, ancora una volta, per impallidire.

martedì, 11 Aprile 2023 - 08:00
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