«Numerosi indizi – e non ‘una ricostruzione obiettivamente paranoica’ – suggeriscono che il dott. Davigo possa essere stato al corrente del contenuto delle dichiarazioni dell’avvocato Amara ancor prima della consegna materiale dei verbali da parte del dott. Storari, ove effettivamente avvenuta solo nell’aprile del 2020». Questo uno dei passaggi, nelle motivazioni della sentenza con cui la prima sezione penale del Tribunale di Brescia, lo scorso 20 giugno, ha condannato a 15 mesi l’ex magistrato componente del Csm, con pena sospesa e la non menzione. A Davigo si contesta la rivelazione del segreto d’ufficio, accusa da cui è stato definitivamente assolto il pm milanese Storari. Nelle motivazioni, i giudici hanno aggiunto che «anche gli albori della vicenda ora all’esame appaiono avvolti da una coltre di opacità».
Le modalità con cui i verbali in formato word di Piero Amara su una presunta Loggia Ungheria sono usciti «dal perimetro investigativo del dottor Storari», tramite una chiavetta Usb consegnata a Piercamillo Davigo, nella sua «abitazione privata (…) e le precauzioni» da questi «adottate in occasione del disvelamento ai consiglieri – avvenuto nel cortile del Csm lasciando prudenzialmente i telefonini negli uffici – appaiono sintomatiche dello smarrimento di una postura istituzionale». E se Storari avrebbe consegnate le carte a Davigo, a suo dire, per autotutelarsi dall’inerzia dei vertici del suo ufficio, tra i due si sarebbe «creato un cortocircuito sinergico reciprocamente fuorviante».
Nonostante tutto, «nel dibattimento non è stato possibile» appurare «quanto sia realmente avvenuto». Nel limbo dell’incertezza, secondo la sentenza, è rimasta una circostanza: «Se quella del sostituto sia stata davvero un’iniziativa ‘self made’ o non ci sia stato invece un qualche mentore ispiratore, come pure farebbero pensare alcuni passaggi rimasti in ombra». Il collegio, inoltre, attribuisce a Davigo una «incontinenza divulgativa». E i criteri di selezione da lui adottati «nella scelta dei depositari del segreto sono state assai variegati ma, in nessun caso, ricollegabili a fini ordinamentali». A riprova di questo, «l’istruttoria dibattimentale ha dimostrato come la circolazione delle notizie al di fuori del circuito ufficiale è rimasta confinata (o quantomeno dovrebbe essere ) sul piano dei rapporti personali e non ha avuto, a livello istituzionale, alcuno sbocco esterno».
E se «sembra, ad esempio, poco verosimile che» il pm «prima della consegna dei verbali (…) non si sia consultato con qualche collega milanese (…). È evidente che la prova di eventuali interferenze verificatesi all’interno della Procura di Milano finirebbe per spalancare uno scenario significativamente diverso da quello emerso nel processo». I giudici stigmatizzano, tra l’altro, il «vero e proprio sterminio di atti, corpi di reato, chat, mail, apparecchi telefonici, pen drive ed indirizzi di posta elettronica che non ha consentito di tracciare appieno gli accadimenti». Quanto al movente, Davigo avrebbe «utilizzato il tema dell’asserita appartenenza massonica per fare terra bruciata intorno al dott. Ardita», magistrato e cofondatore con lui della corrente di Autonomia e indipendenza.
Tuttavia, per l’imputato non è emerso con «sufficiente grado di certezza che abbia strumentalmente ottenuto prima – e divulgato poi – i verbali di Amara» con l’obiettivo di nuocere, «animato da una cosciente volontà di propalare un’accusa che sapeva mendace in ragione di personalismi o di intenti ritorsivi dovuti a dissidi insorti nel passato con l’ex amico». Per Ardita, la sentenza di primo grado ha disposto un risarcimento di 20.000 euro. Davigo invece ricorrerà in appello.
lunedì, 3 Luglio 2023 - 20:47
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