Insulti e consensi, vincono quelli che picchiano duro. Trump e De Luca mettono i Dem nudi allo specchio

di Mary Liguori

Allan Lichtman prima d’ora aveva indovinato nove risultati su dieci, sbagliando solo nel 2000 la controversa elezione di George W. Bush. Lo storico, il “nostradamus” americano, questa volta non ha previsto la vittoria di Trump, il cui successo nel 2016 invece profetizzò, come i Simpson,
contro ogni pronostico. Sul ritorno del tycoon alla Casa Bianca è scivolato, però, anche il New York Times, che il giorno prima del voto aveva titolato “Kamala Harris avanti nei sondaggi” sbagliando clamorosamente dopo settimane passate a invitare i lettori a non votare per Trump, definendolo «pericoloso per la democrazia». Coerente con una linea ormai netta, dopo la vittoria di The Donald, il Nytimes ha continuano la campagna di demonizzazione, definendo il 47esimo presidente degli Stati uniti «inadatto a guidare il Paese» e prevedendo una deriva autoritaristica nei prossimi quattro anni.

Come a volersi isolare da tutto questo, a differenza di quattro anni fa, il tycoon ha atteso lo spoglio e festeggiato la vittoria nella principesca dimora di Mar-a-Lago, a Palm Beach, cuore di diamante della sua Florida, circondato da figli, nipoti, nuore e generi, con il suocero e gli amici di lunga data a far da cornice e, finalmente, con Melania sorridente al suo fianco, perfetta in un tailleur grigio di Dior. Trump si è limitato – per ora – a godersi la vittoria senza polemizzare, ma c’è da scommettere che replicherà a breve a tutte le accuse con il suo solito tono sferzante. Ci saranno altri scontri epici con i giornalisti, sure, ma come scrisse uno dei più seguiti editorialisti del Nytimes nel 2017, sotto sotto quegli attacchi di Trump ai media non sono altro che un modo per “neutralizzarci”.

Spiritoso di un umorismo politicamente perlomeno discutibile, autore di battute evitabili poi diventate veri e propri tormentoni, The Donald ha collezionato negli ultimi giorni innumerevoli e coloriti insulti anche da parte della stampa italiana. Razzista, zotico, bugiardo sono solo alcune delle definizioni che si sono lette sui principali media di casa nostra dopo l’elezione del biondo tycoon. Trump, il più anziano mai eletto alla Casa Bianca, non ispira simpatia né attira empatia nonostante sia, dopotutto, un vecchietto che solo pochi mesi fa ha rischiato di rimetterci la pelle con un proiettile che gli ha sfiorato un orecchio nel bel mezzo di un comizio. Non si è sentito debole lui, “Fight! Fight!”, Gridava il repubblicano sanguinante, agitando i pugno, mentre la scorta, i Servizi, quelli della sicurezza e chissà chi altri gli si gettavano addosso per trascinarlo fuori dalla linea di fuoco, figuriamoci se potevano provare tenerezza i giornalisti che neanche per mezza giornata hanno avuto toni più rilassati verso il candidato repubblicano. Ma Trump il comunicatore, lo showman, il miliardario, sa come si sta davanti a un pubblico e come lo si conquista senza provare mai ad assecondarlo tantomeno a compiacerlo perché, oltre a far soldi a palate, durante i suoi 78 anni, è stato anche sempre un campione di ascolti e di consensi e di sfide ai limiti del surreale (non si tirò indietro neanche quando Vince Mc Mahon, il padre del wresting moderno, lo sfidò a salire sul ring per una leggendaria puntata della Wwe).

Picchia duro e lo picchiano duro, ma a The Donald piace così ed è andato a prendersi i voti che Kamala Harris, la candidata entrata in corsa a metà strada, e i Dem davano per scontati. Ispanici e neri hanno scelto Trump e anche minoranze come quelle asiatiche hanno trovato nella linea dura contro l’immigrazione clandestina qualcosa di positivo se, come ormai è chiaro, hanno scelto il bianco repubblicano al posto della nera democratica. Limitare gli ingressi tutela il mercato del lavoro, hanno spiegato molti rappresentanti delle minoranze negli Stati che hanno deciso col voto popolare che Trump meritava più fiducia di Harris. Un risultato controverso, scrivono gli analisti di sinistra. Una vittoria ottenuta con un consenso trasversale, sentenziano invece i giornali di centro e di destra, un esito che conferisce al presidente degli Stati uniti un potere universale conferitogli in modo netto.
D’altro canto, che Trump abbia conquistato il terreno perso nel 2020 è indubbio. Ed è stato un comeback sotto tutti i fronti. Basti pensare che il suo vice, JD Vance, senatore dell’Ohio, nel 2016 si definiva un “never Trump guy”, e attaccava il tycoon a ripetizione. Cinque anni dopo, dichiarò di aver cambiato idea per aver apprezzato le scelte dell’amministrazione repubblicana e ora, eccolo lì con sua moglie, tra Ivanka e il padre di Melania, pronto a vestire i panni del secondo uomo più potente d’America e con la testa, chissà, già alle prossime elezioni per puntare alla poltrona più alta. Ambizione, determinazione, scarsa considerazione degli avversari, sottovalutazione del rischio e delle conseguenze, propensione nulla a recepire critiche e suggerimenti, sono state le linee guida della vita e della carriera di Trump.

Ed è facile pensare che gli uomini del presidente abbiano lo stesso deciso approccio alla vita. E che puntino sempre più in alto. Come lui che dalla Trump Tower è arrivato alla Casa Bianca e poi ci è tornato nonostante l’impeachment, la condanna, le accuse di avere ispirato l’assalto a Capitol Hill e tutto il resto. Ma il dato elettorale non è tutto merito di Trump e dei Repubblicani. In buona parte la vittoria schiacciante si deve anche ai demeriti Dem. Che hanno cambiato candidato in corso d’opera scegliendo la vice di un Biden mandato in pasto alle telecamere e al feroce rivale stanco e confuso, dimentichi che quella stessa vice non era particolarmente popolare neanche all’interno del partito se aveva perso le Primarie nel 2020 in modo a dir poco umiliante visto che conquistò appena 844 voti, contro, ad esempio i 912.214 di Pete Buttigieg, i 2.475.130 di Michael Bloomberg, i 2.780.873 di Elizabeth Warren, i 9.680.121 di Bernie Sanders.

Cronaca di una sconfitta annunciata, vien da dire, quasi un ammutinamento, quello dei Dem, se si considera che Kamala, candidata a luglio dopo il ritiro rovinoso di Biden, spinta dalle grandi star della musica e del cinema, è stata per qualche tempo in volo sulle ali dell’entusiasmo e poi sempre in testa alla corsa elettorale sui giornali – anche italiani – in una narrazione che non ha trovato poi riscontro alcuno nella realtà. Per tutti e cento i giorni la candidata preoccupata di tenersi stretti i radicali ha finito per non affrontare in modo netto argomenti sui quali il tycoon prospettava un futuro chiaro. Si è tenuta vaga su temi cruciali come l’economia, l’immigrazione e la sanità, ha evitato di prendere posizione e di rilasciare interviste e nel tentativo di tenersi strette le frange più a sinistra dell’elettorato dem consegnava ai rivali i moderati. Il tutto mentre The Donald divorava a morsi la campagna elettorale come fosse stata una bistecca di bufalo, alla faccia dei vegani, parlando di immigrazione, certo, ma anche di taglio delle tasse del 15 per cento per chi investe negli Usa, con una previsione di conseguente massiccia crescita della produzione del reddito.

Una prospettiva che se mal gestita rischierebbe di provocare il tracollo delle casse pubbliche americane con effetti devastanti a livello mondiale. Ma il piano repubblicano ha in programma di compensare la diminuzione delle entrate causate dagli sgravi con l’aumento della produzione e quindi degli incassi fiscali: secondo la Heritage Foundation se Trump porterà dal 2 al 4 per cento la crescita annua le entrate fiscali in dieci anni saranno di 7mila miliardi. Mentre è ancora cocente il ricordo della fuga notturna dei Marines dall’Afghanistan e sulle casse americane inizia a pesare il conflitto in Ucraina, la democratica ha taciuto mentre il tycoon ha promesso di fermare “tutte le guerre”. Trump, il battagliero pacifista, ha conquistato così anche i più scettici e imprendibili elettori: i giovanissimi. Per la prima volta ha votato Barron, l’ultimo figlio di Donald, avuto da Melania, un gigante di due metri appena diciottenne. “Per il suo papà”, ha postato la foto al seggio sua madre, su X il 6 novembre. Barron è stato particolarmente attivo durante la campagna elettorale – ha ricostruito il Times – lavorando sulla Genz e facendo sbarcare il padre anche in un podcast di Adin Ross, uno streamer diventato famoso con le dirette dei videogiochi. Il successo di Donald è anche merito del suo ulimogenito.

È invece una sconfitta per Jenna Wilson, la figlia ventenne transessuale del principale alleato di Trump, Elon Musk, che infatti ha annunciato che gli Stati Uniti non sono più un posto sicuro per lei e che a breve si trasferirà altrove. Nessuna replica, per il momento, dal padre miliardario che la ragazza ha sfidato anche nella scelta del social attraverso il quale annunciare l’addio agli Stati Uniti trumpmuskiani: ha scritto su Threads, canale del gruppo Meta, principale competitor di X, il social – un tempo Twitter – che il padre ha comprato e ribattezzato. Controversie, dunque, straripanti come tutto ciò che riguarda Trump. “America first”, “Make America great again” sono gli slogan che hanno ritrascinato i Repubblicani fino a Washington e hanno conquistato ricchi e poveri. Un risultato senza sbavature che ha avuto subito una serie di effetti.
La vittoria globale di Trump ha investito i mercati che, il giorno dopo le elezioni, hanno infiammato Wall Street facendo volare il dollaro e il bitcoin. Prudente, invece, l’Europa, dove si aspetta di capire quali saranno adesso le politiche americane in Ucraina e in Palestina, temendo virate russe e sbilanciamenti verso Tel Aviv a discapito dell’Iran.

Il presidente giurerà a gennaio, c’è tempo per Biden che ha le valigie pronte ormai da mesi e s’accinge a lasciare definitivamente la Casa Bianca, mentre gli piovono addosso le responsabilità della disfatta. Una parte dei suoi lo accusa d’essersi ritirato troppo tardi non lasciando al partito il tempo per lavorare su un candidato forte e preparare una campagna elettorale utile a contrastare un rivale agguerritissimo. Ma i Democratici sanno che i bisticci tra le varie fazioni che compongono il partito pure hanno avuto un ruolo chiave nella debacle. Divisioni interne, ripicche e scarsa propensione al compromesso, una leadership troppo spesso messa in discussione hanno finito per dilaniare dal di dentro il partito.

Ora tocca ricostruire e, quanto accaduto negli States, suona come un monito dall’altra parte dell’oceano. Oltre lo Stretto. A casa nostra. Con il centrodestra al governo nazionale e la Liguria saldamente in mano alla medesima fazione, i dem in Italia vivono con forte ansia la prossima scadenza elettorale: le Regionali in Emilia Romagna. La tornata è diventata una partita cruciale per il futuro dei dem dopo che il Pd campano ha disobbedito alla segretaria Elly Schlein votando compatto per consentire a De Luca di correre per il terzo mandato. Ironia della sorte, si è votato nel giorno in cui l’America sceglieva il nuovo presidente. Dopo il via libera per il governatore in Consiglio regionale della Campania, Schlein ha chiarito che De Luca «non sarà in ogni caso il nostro candidato» sbarrando la possibilità di un dialogo con il Pd campano. C’è tempo per ritrovare intesa e visione condivisa, in Campania non si voterà prima di un anno, ma prima di sedersi a tavolino per discutere di questo, il Pd deve affrontare la sfida romagnola e possibilmente vincerla se non vorrà vivere un ennesimo terremoto interno che potrebbe finire con le dimissioni della segretaria anti-De Luca. Viceversa, Schlein potrà imporsi con i campani mettendo però in conto che l’altolà a De Luca può comportare l’addio di alcuni tra i principali portatori di voti del Pd regionale. Solo ipotesi, per ora, mentre il potentissimo governatore si gode la vittoria e sa di avere il coltello dalla parte del manico. Il tutto mentre l’evanescente gruppo di Forza Italia campano registra le dimissioni dell’intero direttivo regionale.

sabato, 9 Novembre 2024 - 15:57
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