La vergogna e la rabbia. La vergogna sta in una Giustizia costretta ad essere amministrata nelle tende. Tende alzate alla meno peggio davanti a quella che storicamente è stata la cittadella della Legge di Bari. Tende alzate di fretta e furia come accade dopo i disastri di un terremoto. La rabbia, invece, è quella dei magistrati, degli avvocati e degli operatori di procura e tribunale che sono stati lasciati soli – come ha accusato nei giorni scorsi l’Associazione nazionale magistrati – dal Ministero della Giustizia e della politica perfettamente a conoscenza delle problematiche strutturali della cittadella della legge che hanno portato all’inevitabile sgombero, eppure completamente disinteressati nell’affrontare il problema e mettere sul tappeto soluzioni più di dignitose di quella emergenziale adottata sabato scorso.
Ieri mattina nella tendopoli di fortuna allestita in 24 ore dalla Protezione civile regionale per non paralizzare il corso dei processi, con tutte le ricadute del caso soprattutto su quelli con imputati detenuti, si sono tenute le prime udienze. Scenario indecente. Con i bagni chimici impiantati all’ingresso del palazzo ormai svuotato, e un totem con le indicazioni delle aule d’udienza allestite in altrettante tensostrutture montate sul parcheggio sterrato, quindi il gazebo giallo con i carabinieri che fanno i controlli. Scenario indecente. Con tende infuocate al suo interno l’aria è irrespirabile: solo la tenda più grande, quella da 200 metri quadrati, è refrigerata mentre le altre due, da 75 metri quadrati l’una, non hanno condizionatori. Giudici e magistrati camminano a testa bassa. Si sentono mortificati loro, che non hanno colpe, per lo scenario indecente che la politica sta offrendo. «Non avremmo mai voluto celebrare una udienza sotto una tenda della Protezione civile», è scritto su un cartello all’ingresso a firma dei giudici presidenti delle sezioni penali. «Siamo vittime, tutti noi operatori della giustizia ed anche tutti i cittadini che del servizio giustizia fruiscono, non di un terremoto naturale ma di uno provocato dalla burocrazia e inefficienze». Roba da «paese incivile», per dirla con le parole del vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Giovanni Legnini. E l’affermazione non è un’eresia. Il sindaco di Bari Antonio Decaro, nella giornata di domenica, ha persino chiesto lo stato di emergenza, come accade in caso di calamità naturali. Quanto sta accadendo è è surreale e difficile da commentare. «La sensazione è bruttissima, siamo costernati. Negli ultimi due anni e mezzo abbiamo fatto di tutto per smaltire l’arretrato, arrivando a scrivere ciascun giudice fino a 450 sentenze all’anno e ora tutto il lavoro fatto rischia di essere buttato all’aria», dice Rosa Calia Di Pinto, segretario dell’Anm di Bari. Nonostante il caldo, le condizioni proibitive e mortificanti, magistrati, avvocati e personale amministrativo sono responsabilmente al proprio posto. A garantire un servizio che la politica ha dimostrato di considerare di non rilevante importanza, Ministero della Giustizia incluso benché da via Arenula a Roma abbiano invece provato a spiegare di non essere a conoscenza di quanto stava accadendo. Un’affermazione che ha mandato su tutte le furie i magistrati baresi, spingendo il procuratore a mettere le carte sul tavole affinché ciascuno si assuma la propria responsabilità: «Il ministero ha ricevuto informazioni ed inviti continui a rimediare ai problemi segnalati, da almeno quindici anni, se non più», ha spiegato nei giorni scorsi il procuratore di Bari Giuseppe Volpe. Né è impossibile notare come da giorni, sul caso di Bari si spendano parole di rabbia e di protesta. Ma tra le numerose agenzie di stampa che hanno puntualmente dato conto degli ultimi assurdi effetti dello sgombero del Palagiustizia non c’è traccia dell’intervento di un solo politico.
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lunedì, 28 Maggio 2018 - 15:14
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