Processo sulla Giustizia svenduta a Trani, parla la superteste: «D’Introno pagò». E per la prima volta accusa 4 poliziotti

giudice martello
di Roberta Miele

Riavvolgiamo il nastro di uno dei processi più delicati che verte su un ipotizzato giro di corruzione all’interno di un Palazzo di Giustizia ad opera di magistrati. Il processo riguarda la cittadella della legge di Trani. La cronaca capillare del dibattimento attualmente in corso. Per leggere i servizi relativi alle altre udienze, basta cliccare sul tag – alla fine dell’articolo – ‘sistema trani’.


«La questura di Corato mi ha sempre sotterrata perché erano tutti complici». Pesano come macigni le parole di Marianna Capogna per gli agenti della polizia del comune in provincia di Bari, tirati in ballo per la prima volta dalla testimone nel giudizio contro il “sistema Trani” all’udienza del 19 febbraio 2020.

Tra gli affossati dal sistema ci sarebbe anche il gruppo Ferri, colosso del ‘no food’ di Corato con 400 negozi e 3mila dipendenti fallito nel 2003. L’indagine sul crac fu coordinata dall’allora pm tranese Antonio Savasta che, nel dicembre 2013, chiese e ottenne dal gip Michele Nardi il sequestro di tutti i beni della famiglia Ferri. Oggi Michele Nardi è imputato insieme all’ispettore di Corato Vincenzo Di Chiaro, all’avvocato Simona Cuomo, al titolare di una palestra Gianluigi Patruno e all’ex cognato del pm tranese Antonio Savasta Savino Zagaria nel rito ordinario dinanzi alla Seconda Sezione penale del Tribunale di Lecce per avere pilotato processi in cambio di favori e regali. Antonio Savasta per gli stessi fatti è stato condannato all’esito del rito abbreviato.

Marianna Capogna è l’ex compagna di Tommaso Nuzzi, il quale era in affari con Flavio D’Introno, l’imprenditore di Corato considerato il corruttore dei magistrati e oggi diventato il principale accusatore del sistema. E per questa collaborazione Flavio D’Introno frequentava tutti i giorni l’abitazione della testimone. E parlava, parlava. «Una volta è venuto a casa con una valigetta di soldi che doveva consegnare a Nardi e chiese a Nuzzi di accompagnarlo. All’interno c’erano banconote dal taglio di cinquecento e duecento euro», ha raccontato Marianna Capogna dinanzi al collegio giudicante presieduto da Pietro Baffa. Le conoscenze dell’imprenditore coratino raggiungevano anche il commissariato: «L’ispettore Di Chiaro faceva di tutto per sistemare i processi, per far ritrattare i testimoni». Ma a dire della donna vi erano altri poliziotti corrotti. Rispondendo alle domande dell’accusa, rappresentata dalla pm Roberta Licci, Capogna ha iniziato a fare i nomi e cognomi degli altri agenti che avrebbero avuto rapporti con D’Introno. Nomi e cognomi, riferibili a quattro persone, mai pronunciati prima dalla teste, nemmeno in sommarie informazioni, e sui quali adesso vi saranno accertamenti da parte della procura.

Marianna Capogna era agitata, temeva di dimenticare qualcosa. Così ha iniziato a leggere i suoi appunti sui fatti da raccontare in Aula. «Di Chiaro ha percepito soldi da D’Introno anche davanti a me», ha continuato. Se l’ispettore durante la sua attività sequestrava attrezzi per rubare auto – ha dichiarato la teste –, al momento del dissequestro, invece far sì che venissero distrutti, li consegnava a Tommaso Nuzzi. In cambio riceveva soldi e favori: «Una volta 2mila, un’altra 3mila euro. Nuzzi gli aggiustava la macchina, gli comprava bracciali, orologi, una macchina fotografica, un binocolo professionale».

Nel 2016, dopo la rottura con Tommaso Nuzzi, Marianna Capogna ha iniziato a parlare con i carabinieri di Barletta. Da allora ha ricevuto «minacce da parte di persone a lui riconducibili». Durante un episodio, Nuzzi l’ha aggredita davanti all’ispettore Di Chiaro che, stando al racconto della teste, non ha mosso un dito. In un’altra occasione, invece, alcune persone le hanno vandalizzato e distrutto la sua abitazione. Ma Tommaso Nuzzi, denunciato per stalking, già durante la convivenza, ha raccontato la testimone, era violento.

Dopo la lunga testimonianza, durata tre ore, ha preso la parola Filippo Ferri, proprietario insieme ai fratelli dei Magazzini Ferri. «Ci hanno tolto tutto nel giro di sei mesi» ha esordito l’imprenditore. «Le banche – ha dichiarato – ci hanno chiuso i rubinetti nel 2002. Abbiamo fatto di tutto per salvare l’azienda, anche chiesto l’amministrazione straordinaria: l’unico caso non accettato in Italia è stato al tribunale di Trani». «Per salvare almeno la libertà» ai fratelli Ferri venne consigliato di rivolgersi all’avvocato Vincenzo Miranda, che si vantava dell’amicizia con Michele Nardi. «Ci chiese quattro milioni. Ci disse che erano per Nardi e Savasta», ha continuato Filippo Ferri. Il legale, nel corso di un colloquio, mostrò ai quattro fratelli le misure cautelari che di lì a poco sarebbero state emesse se non avessero pagato. I Ferri, messi alle strette dai sequestri, recuperarono solo 215mila euro. Miranda non ha mai detto di avere dato quei soldi all’ex gip, che una volta è stato visto da Francesco, fratello di Filippo Ferri, mentre usciva dallo studio del legale. Dei processi a carico dei patron del gruppo uno è stato annullato dalla Cassazione per prescrizione, l’altro pende ancora dinanzi alla Suprema Corte.

sabato, 25 Luglio 2020 - 11:18
© RIPRODUZIONE RISERVATA